La riserva frazionaria delle banche e il mondo Bitcoin due modelli in rotta di collisione

Il mese scorso è uscito un post su Rischio Calcolato, intitolato “No! Non è possibile la riserva frazionaria su Bitcoin”. Nel pezzo, il autore afferma, con tono molto deciso, l’assoluta impossibilità di immaginare un sistema di riserva frazionaria in ambito Bitcoin. Personalmente non sarei così netto nel liquidare la questione.

L’autore ha assolutamente ragione nel sostenere che la tecnologia Bitcoin è “l’anticristo della MMT, del sistema delle Banche Centrali”: la tecnologia è stata esplicitamente ideata per combattere la manipolazione monetaria da parte dei monopolisti statali, tanto cara tanto ai complottisti barnardiani quanto ai loro “nemici immaginari” banchieri centrali. E tutti coloro che oggi cercano di costruire attorno alla tecnologia Bitcoin una pretesa “neutralità politica” farebbero bene a ricordare la frase molto poco “neutrale” inserita da Satoshi stesso come simbolico commento alla prima transazione.

Ritengo tuttavia che l’identificazione tout court della problematica della manipolazione statale del denaro con quella della riserva frazionaria sia discutibile (problema più generale), e che non sia tecnicamente corretto escludere la possibilità di quest’ultima pratica nell’ambito della tecnologia Bitcoin (problema più specifico).

Tanto per cominciare, come suggerito da diversi commenti al post di FunniKing, è assolutamente possibile che un istituto di credito operi in vera e propria riserva frazionaria usando come sottostante la valuta bitcoin. Nel suo primo “p.s.”, l’autore del post derubrica questa eventualità ad un caso di “prestiti IN VALUTA FIAT e USANDO LA RISERVA FRAZIONARIA SUL VALORE DEI BITCOIN”, ma questa mi sembra una forzatura linguistica: così come l’emissione da parte delle banche tradizionali di titoli fiduciari nominati in euro viene chiamata “riserva frazionaria” qualora questi crediti non siano interamente garantiti in ogni momento da un deposito effettivo, allo stesso modo l’emissione da parte di una “banca Bitcoin” di titoli fiduciari nominati in bitcoin e non interamente garantiti in ogni momento da un deposito effettivo sarebbe a pieno titolo un’operazione di riserva frazionaria.

A mio parere la vera questione, casomai, è quale motivazione possa spingere qualcuno a possedere titoli fiduciari nominati in bitcoin, anziché direttamente bitcoin veri e propri: perché dovrei utilizzare una banca (con tutti i rischi di terza parte che ne derivano) quando ho finalmente a disposizione una tecnologia che mi permette molto facilmente di “essere la mia banca”? Una risposta banale potrebbe essere: per abitudine, per inerzia, per adoperare i soliti canali invece che imparare ad utilizzare un nuovo strumento (è il motivo per cui penso che l’imminente ingresso nel mercato di ETF nominati in bitcoin sarà un grosso incentivo all’investimento per gli attori finanziari più tradizionali).

C’è comunque, all’inizio del post, una frase molto chiara e netta che sembra circoscrivere meglio il problema: “In nessun modo è possibile creare un meccanismo di riserva frazionaria dentro la blockchain”. Anche questa affermazione più specifica, però, non è esatta.

Sono ormai parecchi mesi che si discute delle possibilità offerte dalle cosiddette “tecnologie Bitcoin 2.0“, mirate cioè a utilizzare la tecnologia blockchain (ed in alcune versioni addirittura la stessa, specifica e consolidata blockchain di Bitcoin, anziché alternative di sicurezza meno provata) per trasferire altri “crypto-asset”, di natura diversa rispetto al “bitcoin as a currency”.

Questi token su blockchain possono rappresentare un’enorme varietà di risorse scarse: titoli di proprietà da impugnare legalmente, titoli di una “smart property” che si garantisce autonomamente, posizioni all’interno di determinati “smart contract”, come per esempio ordini di vendita o di acquisto, opzioni, azioni, obbligazioni, ruoli organizzativi o categorie ancora più esotiche. A livello tecnico una banca potrebbe, già ora mentre scrivo, utilizzare dei “colored coin” su blockchain per raffigurare i titoli in euro presenti sul conto di un correntista (con alcuni vantaggi rispetto ai conti correnti attuali: per esempio l’impossibilità di prelievi forzosi, ma con le stesse identiche problematiche a livello di fiducia nella solvibilità del creditore), creando così a tutti gli effetti un “meccanismo di riserva frazionaria dentro la blockchain”. Il caso più realistico, tra l’altro, non sarebbe quello di crpto-crediti su blockchain nominati in euro, quanto piuttosto quello di crypto-crediti su blockchain nominati in bitcoin, proprio per possibili sinergie con il discorso smart contract!

C’è da dire, infine, che anche senza ricorrere all’utilizzo di tecnologie “Bitcoin 2.0″ (di cui pure abbiamo già davanti agli occhi vari esempi operativi e funzionanti), ci sarebbero alcuni metodi “standard” per simulare un meccanismo di riserva frazionaria su blockchain. Un mio indirizzo bitcoin, per esempio, potrebbe essere assieme ad altri n co-firmatario di un particolare wallet “multisig 1+1 of n+1″ (dove il “+1″ rappresenta la firma del direttore della banca, necessaria per autorizzare qualunque transazione): tutti i co-firmatari che depositano su questo wallet più bitcoin di quanti ne prelevano (con il consenso del direttore) sono di fatto “correntisti” della banca, mentre coloro che prelevano più bitcoin di quanti ne depositano (sempre passando dall’autorizzazione del direttore) sono di fatto “debitori” che la banca è andata a finanziare, a fronte di accordi di vario tipo (e ovviamente del pagamento di un interesse).

Avremmo un meccanismo di riserva frazionaria con Bitcoin, senza nemmeno utilizzare degli avanzati crypto-asset. Anche in questo caso, la vera questione non è di fattibilità tecnica, ma di motivazione: perché diavolo dovrei privarmi del controllo assoluto, totale, irrevocabile e certo sui miei bitcoin, infilandomi in un meccanismo del genere, in balia di un ente terzo non si sa quanto affidabile, e di altri attori non si sa quanto prevedibili?

La risposta non è affatto banale, e va a toccare il tema più generale del motivo per cui la riserva frazionaria, attualmente, è così diffusa nel mondo delle valute nazionali. Il punto è che la riserva frazionaria, per come stanno le cose ora, conviene! Conviene perché ripaga il correntista con un interesse, per quanto basso, mentre un conto a riserva intera presenta al correntista un costo di deposito, per quanto basso (nel caso di bitcoin il costo è sostanzialmente nullo, paragonabile a quello di tenere contanti sotto al materasso, ma con una sicurezza e una praticità infinitamente maggiori…ma continua a mancare il ritorno dato dall’interesse).

In un sistema di mercato, questa chiara convenienza sarebbe bilanciata da un rischio almeno altrettanto chiaro: quello di un’insolvenza, di una corsa agli sportelli e di un fallimento. E’ interessante notare come nel periodo del cosiddetto “free banking scozzese” (uno dei meglio studiati tra i moltissimi, diffusissimi e lunghissimi periodi di free banking, istituzione di mercato che ha costituito la norma per la gran parte della storia del mondo civilizzato) la riserva frazionaria utilizzata dalle banche fosse tenuta sotto controllo da forze di mercato, e non da un astratto “gold standard” (o da ancora più astratti “accordi di Basilea”) imposto per legge: le banche che si esponevano troppo fallivano, i creditori imparavano e pretendevano dalle banche esposizioni minori, rinunciando a parte degli interessi.

Ma noi non siamo affatto in un sistema di mercato, per quanto riguarda la moneta e il credito, e questo per svariate ragioni: i sistematici e continui salvataggi bancari, in ragione dei quali i correntisti sanno che le banche sono considerate “too big to fail” e che i governi sono disposti a salvarle dall’insolvenza con i soldi estorti a terze parti, tramite la tassazione; il monopolio monetario delle banche centrali e il legal tender, grazie a cui i governi possono drenare ricchezza dal mercato creando nuova base monetaria e imponendo una “tassa da inflazione”, che permette di ripianare ulteriormente i bilanci in rosso delle banche fallite; l’infinità di leggi, norme e regolamenti che impongono o comunque incentivano l’uso di conti bancari a riserva frazionaria, a partire dalle modalità di pagamento imposte dalla burocrazia fino alle misure di “lotta al contante”.

Per tutti questi motivi, i conti corrente a riserva frazionaria effettuano una vera e propria “concorrenza sleale” nei confronti di depositi veri e propri: il beneficio è ben visibile agli occhi del correntista, mentre il rischio associato al beneficio è nascosto ed esternalizzato su terze parti senza voce in capitolo.

Chiudendo questa divagazione e tornando alla questione Bitcoin, mi spingerei ad affermare che la vera innovazione di questo protocollo non sta solamente nell’aver fornito un prototipo di risorsa scarsa trasferibile su una blockchain, ma nell’aver riportato in concorrenza tra di loro diverse soluzioni. Comprese, volendo, anche quelle basate sul debito e sulla “riserva frazionaria”, che però in questo campo dovranno misurarsi ad armi pari nella sfida del mercato. E questo per un semplice motivo: estorcere bitcoin tramite tasse o inflazione è molto difficile, e ci sono buone garanzie che diventi in futuro sostanzialmente impossibile.

 

 

Articolo ripreso dal sito di giacomozucco.com – autore: Giacomo Zucco