La Spagna consegna la maggioranza assoluta ai conservatori di Mariano Rajoy. Con il 44,1% dei voti e 187 deputati, contro un 28,8% di voti e 110 deputati per i socialisti di Alfredo Perez Rubalcaba, la Spagna diventa un paese conservatore dopo 7 anni di socialismo.
Il che significa una maggioranza assoluta per i popolari e la più ampia della democrazia, visto che i popolari governano anche la metà dei comuni spagnoli e 11 su 17 regioni autonome spagnole. La più grande disfatta del Psoe ancora al di sopra di quella incassata nel 2000 da Joaquin Almunia, e che raggiunge il risultato ottenuto alle prime elezioni post costituzionali. Quello che esce dalle urne spagnole però è anche un Congresso colorato e che dà ragione all’appello contro il bipolarismo degli Indignados, aprendo le porte a 12 rappresentazioni politiche.
I partiti minoritari entrano nell’emiciclo del Paese iberico a costo dei voti socialisti, soprattutto la sinistra unita (Iu) che guadagna 11 seggi, mentre il partito di Rosa Diez Upyd guadagna 5 deputati. Le novità assolute sono i partiti nazionalisti: il partito Amaiur, rappresentazione della sinistra basca che si aggiudica 7 scranni, quasi un premio dopo l’abbandono della violenza da parte di Eta, mentre in Catalogna il CiU supera il partito socialista catalano con con 16 deputati contro 14 e diventa la prima forza politica catalana e la terza forza politica dell’emiciclo.
Il presidente uscente Zapatero, accolto da più fischi che affetto all’uscita dal collegio elettorale, lascia nelle mani dei conservatori un paese in crisi e anche se Rajoy, nuovo presidente spagnolo ha promesso di non salire alla Moncloa rimproverando il suo predecessore dell’eredità ricevuta, quello che aspetta Rajoy è un momento duro, molto di più dell’ultima volta che i popolari salirono al governo nel 1996.
Tagli obbligati per 21.000 milioni di euro per ridurre il deficit al 4,4%. Cinque milioni di disoccupati, recessione economica attesa per il 2011-2012, spread intorno ai 500 punti, e un interesse sul debito pari al 7%. E le riforme che aspettano il governo conservatore: riforma della giustizia contro la congestione e lentezza dei processi, e rinnovamento del Tribunale Costituzionale, cui si aggiunge la gestione del deficit della Sanità che si aggira tra i 15 e i 20 miliardi di euro.
Altre decisioni importanti sono anche la linea da seguire con la nuova tappa del terrorismo dell’Eta, la riforma della scuola, e, in politica estera, ritiro delle truppe spagnole dall’Afghanistan e relazioni con i paesi del Nord Africa. Sul piano dei diritti civili, gli occhi internazionali sono puntati sulle due decisioni cruciali per i conservatori: matrimoni omosessuali e aborto. Temi entrambi trattati con la ormai nota ambiguità dal nuovo presidente del Governo spagnolo.
Un presidente che ha sperato tre volte di arrivare alla Moncloa, ma non c’è due senza tre. E così Mariano Rajoy, per la terza volta candidato alla presidenza del Governo spagnolo, ottiene la consegna dalle mani del suo eterno rivale Zapatero, dopo aver aspettato sette anni il suo turno, da quel lontano 2003 in cui il presidente uscente Aznar, certo di avere la vittoria in pugno di fronte ad uno sconosciuto José Luis Rodríguez Zapatero, gli passò lo scettro del partito.
Anche in quell’occasione l’unico dubbio di Rajoy fu se sarebbe stato eletto con la maggioranza assoluta oppure no. Gli consigliarono un cambio di immagine un po’ antiquata per scontrarsi con il giovanissimo Zapatero, e lui si sentì già alla guida del Paese. Ma perse le elezioni, e con la sua famosa timidezza passò dal sogno a leader dell’opposizione. Nel 2008, alle successive nazionali lottò senza tregua, ma anche in quel caso perse e gli spagnoli rielessero Zapatero.
Scontrandosi con parte del suo partito che lo voleva fuori dopo la seconda sconfitta si creò un proprio filone e quando arrivò la crisi economica in Spagna iniziò la sua campagna elettorale contro la gestione socialista dell’economia arrivando a portare il suo partito alla vittoria delle amministrative di maggio in 11 regioni su 17.
Con una campagna elettorale per le generali di novembre tutta in discesa, e questa volta davvero con la vittoria in pugno, nonostante i sondaggi come leader lo dessero perdente. Rajoy ha condotto una campagna di basso profilo, accettando solo un dibattito televisivo con il suo carismatico rivale Rubalcaba, sicuro di avere in tasca la vittoria regalatagli dalla sensazione da parte degli elettori della cattiva gestione socialista della crisi, asso nella manica la disoccupazione crescente e la paura di un progressivo peggioramento della crisi economica.
Facile trovare lo slogan in questo caso: unisciti al cambiamento, in una campagna elettorale che per lui più che una sfida è stata un red carpet, o meglio un tappeto azzurro, mentre sulle sue labbra non è mai comparso il nome del rivale. «Abbiamo un solo avversario – ha ripetuto meeting dopo meeting – la disoccupazione».
Rajoy ha dato prova in ogni occasione mediatica di essere uno affidabile, prevedibile e serio sui cui ogni spagnolo può contare, nascondendo il resto delle sue intenzioni dietro il vocabolo più ricorrente della sua campagna: “dipende”.
A fare il resto è stata la crisi. Il futuro per Rajoy da domani è tutto in salita, questo sì, dopo aver promesso austerità senza dire dove taglierà, unico obiettivo: controllo della spesa pubblica (che nelle regioni governate dai suoi da maggio si è tradotto già in tagli all’educazione e alla sanità, diminuzione delle tasse alle imprese e alle famiglie numerose), riforma del lavoro, non specificato di che tipo, riforme anche della legge per l’aborto e i matrimoni omosessuali, ma anche su questo si è mantenuto ambiguo, Rajoy si prende il potere di decidere nei prossimi mesi e nei prossimi anni come mettere in pratica tutto questo.
E farsi conoscere in Europa dove resta uno sconosciuto.
Dovrà vedersela con Merkel e Sarkozy in un momento nel quale sembra che Olanda e Svezia contino più della Spagna. Non parla inglese e non ha avuto mai a che fare con i partiti europei. In questo contesto economico e con questo profilo, sarà difficile per lui garantirsi forza a Bruxelles, forse per questo, a differenza del suo rivale, Rajoy ha ripetuto per tutta la campagna che il suo obiettivo è tenere i conti in ordine per mantenere le promesse con l’Europa.
Dal canto suo, Alfredo Pérez Rubalcaba, ministro dell’Interno dell’ultimo governo socialista, il velocista che candidato socialista allo sprint finale dopo la sconfitta alle elezioni amministrative di maggio, fin dall’inizio della campagna era cosciente che neanche uno sforzo erculeo sarebbe bastato a vincere, ha lottato fino all’ultimo perché il Psoe non perdesse drasticamente ma non ce l’ha fatta.
Questa resterà nella storia spagnola non solo come la più grande maggioranza raggiunta dal Pp, ma anche come la maggiore sconfitta per i socialisti, il partito che è stato per 14 anni al potere con Felipe Gonzales (1982-1996) e altri 7 con Zapatero.
Lontani quei tempi oggi, con un partito socialista a brandelli, una gerarchia irriconoscibile anche per i militanti, e non soltanto per colpa della crisi economica, stretto fra un’ala sinistra che ha visto nel riformismo di Zapatero un’abdicazione ai principi socialisti dello stato sociale e un’ala progressista, fatta da quel ceto medio che si ritiene il più esposto alla crisi economica. Con la sconfitta di Rubalcaba nel partito socialista nasce una domanda sulle dimissioni del vero segretario di questo partito, il presidente uscente Zapatero, e si apre la lotta alla presidenza, nascosta durante la campagna, ma all’ordine del giorno, soprattutto dopo la sconfitta in Catalogna dell’altra probabile candidata alla segreteria socialista e già ministra della difesa Carmen Chacón che perde contro Ciu.
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