Negli ultimi mesi sono stato combattuto nel prendere una posizione nei confronti dell’argomento ‘startup innovative’. Risulta così attraente a prima vista, lo è diventato persino per parte dell’attuale governo al punto da varare una serie di misure specifiche a difesa della categoria ‘aziende innovative‘.
Oltre a chiedermi ripetutamente quale sia la vera definizione di ‘innovativo’ (non può essere sempre e solo tutto ciò che ha a che fare con il web o le biotecnologie…) e perché lo Stato debba aiutare solo le nuove imprese innovative e non tutte le nuove imprese (chi ha argomenti in merito me li suggerisca…), ho percepito leggendo qua e là nelle zone frequentate da startupper un certo senso snobistico e autoreferenziale in tutta una serie di personaggi e di taluni centri cosiddetti di innovazione, che si sono messi al centro di questo processo, occupandolo sistematicamente al punto di fare venire più di un sospetto.
Eppure, voglio dirlo con chiarezza, di nuove imprese costruite su tecnologie d’avanguardia, su basi manageriali lontane dai limiti dell’imprenditore anni ’60 (Dio lo benedica, ma oggi è finito…), su tecniche di marketing ampiamente diffuse all’estero, di queste nuove imprese e dell’energia costruttiva dei giovani imprenditori ‘startupper’ l’Italia ha bisogno come il pane. Un paese decisamente troppo vecchio, dominato da lobby con scarso intresse del bene comune, da una casta manageriale che si è spesso rivelata inadeguata (troppi i casi recenti di cattiva gestione e non solo nelle banche di cui mi occupo qui) ha bisogno di tante forze nuove con idee e speranze, senza paura di rischiare.
Quindi lunga vita alle startup, l’Italia deve imparare da Israele, dal Cile da chiunque abbia saputo sviluppare una cultura della piccola impresa che cresce in fretta in un ambiente creativo (non protetto). L’Italia deve generare molte più startup di quanto abbia saputo fare sinora.
Ma che qualcosa non vada per il verso giusto in tutta l’improvvisa passione italica per le startup deve essere pur vero, se leggendo qua e là in rete si trovano tante tracce di torbido. E qui oggi ne riporto una che ho trovato significativa per la sua lucidità e precisione nel trafiggere i difetti dei nuovi profeti delle startup all’italiana.
Tratto dal blog di Woorkup.com ecco l’atto di accusa di Antonio Lupetti scritto il 31/12:
Se 100 storie d’innovazione cambiano poco e niente
“Ho letto con molto interesse, e non nascondo qualche perfido sorriso, la classifica che ha pubblicato ieri Riccardo Luna su CheFuturo! con la Top 100 delle storie d’innovazione del 2013. Escluso il sottoscritto e Rocco Siffredi, c’erano proprio tutti (speriamo di aver più fortuna l’anno prossimo eh!). Mi sono soprattuto divertito a leggere le reazioni sui vari fronti, con gli immancabili sfottò e i dovuti reciproci onori tra i vari classificati. Roba che neanche l’intero esercito del clero, a Papa Francesco, dopo la sua incoronazione a uomo dell’anno sulla copertina del Time.
Voglio concludere l’anno con una domanda e una lunga osservazione a corredo. Cos’è per voi l’innovazione? Una domanda apparentemente facile. Basta sfogliare qualche rivista o blog tra i più blasonati in materia per prendere spunto e provare a dare una definizione.
Facciamo però uno sforzo in più. E proviamo a guardarla da un altro verso. Nell’ambito dell’innovazione, quella vera, in Italia abbiamo delle eccellenze di prim’ordine a cui tutto il mondo guarda con rispetto e stima. Dall’industria aerea, a quella spaziale, a quella navale, a quella dei trasporti, a quell’ingegneria delle costruzioni, solo per citare alcuni esempi. Senza voler togliere nulla all’autorevolezza dei personaggi riportati in classifica, mi viene però spontaneo sottolineare che, ad oggi, sono proprio quelle realtà appena citate a costituire il vero e unico motore abilitante dei servizi essenziali alla base del progresso della nostra società civile.
Quello che trovo strano è che, in modo sistematico, l’innovazione venga derubricata con faciloneria a qualcosa – permettetemi l’iperbole – di molto più terra terra. Al di là del caso specifico della classifica che lascia il tempo che trova, quello che vedo sempre più spesso spacciato per “innovazione” sono solo le frattaglie insignificanti di un circuito autoreferenziale che da quindici anni a questa parte, complice certo giornalismo, ha masticato il termine solo per vomitarlo, di volta in volta, nel piatto più ghiotto.
L’ “innovazione” è diventata un pretesto per alimentare la miriade di eventi che sbocciano ogni anno in ogni angolo del Paese a unico beneficio della visibilità dello sponsor di turno. Una leva di endorsement politico tramite la quale, un domani, poter chiedere il conto per qualche incarico istituzionale. L’innovazione è l’incarnazione di un piccolo esercito di personaggi che si alternano a turno nelle task force dei ministeri con poche idee e ancor meno risultati. Un buco nero in cui dirottare milioni di euro di fondi pubblici utili a mantenere in vita una ristretta oligarchia composta da chi, quei soldi, finisce per gestirli. L’innovazione è oramai un’opaca vetrina al pubblico di iniziative che necessitano di visibilità.
Ecco. Prima di avere la pretesa di voler cambiare tutto, già cambiare solo questo approccio sarebbe un sano sintomo di maturità. Un atteggiamento più edificante dell’infantile stupore che si prova davanti al solito marketplace di individui, app per smartphone o startup che ripetutamente ci viene sbattuto in faccia solo per nascondere il grosso del fango sul fondo.”
Articolo di Fabio Bolognini ripreso dal sito Linkerblog.biz
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