La vera storia del Disastro della Banca Popolare di Vicenza nell’era Zonin

Augh, fratelli zebedei! Noi, che per sette volte abbiamo eletto il Grande Capo della Banca, siamo tutti fratelli gemelli, chiaramente Zebedei. Noi che abbiamo fatto festa ai buffet delle assemblee, durante il ventennio del Grande Capo, dove ci sentivamo onorati di essere presenti, anzi aspettavamo con gioia l’invito.

Non importava essere in sala, lì erano presenti gli affezionati per compiacere, i dipendenti per dovere, i gerarchi per farsi vedere. Ma anche noi c’eravamo, e applaudivamo.

Noi che baldanzosi votavamo l’aumento del valore delle nostre azioni, mentre il mondo della finanza andava a rotoli in ogni continente, perché convinti che “piccolo è bello” e “locale ancor di più”. Già, perché quando mai hai la possibilità di dare del Tu a consiglieri d’amministrazione? Così, quando servono i soldi per ingrandire le nostre imprese o per dar loro semplicemente liquidità, risulta più semplice ottenerli e magari non restituirli. Noi li chiedevamo e, quando ce li davano, applaudivamo.

Noi che eleggevamo a scatola chiusa i nomi proposti dal Grande Capo. Per carità, bei nomi, persone stimabili, imprenditori validi, nobili che portano lustro. In realtà, un mucchio di gerarchetti di provincia. Chi si ribellava o, semplicemente, faceva domande fuori posto, veniva esposto al pubblico ludibrio e da noi emarginato in assemblea e nella pubblica via. Noi lo facevamo, e applaudivamo.

Noi che verso la fine degli anni ’90 facevamo a pugni per entrare come soci in banca. Volevamo essere parte del prestigioso club dei potenti dove, in ossequio ai più potenti degli altri, eravamo generosi di complimenti e sperticati elogi. Noi eravamo, e applaudivamo.

Noi che ci siamo incazzati di fronte alle regole stabilite dalla Bce e dalla Germania, consci che non avrebbero portato a nulla di buono. Perché i soldi ce li avevano prestati a fronte di acquisto di azioni e non c’era nulla di male: lo facevano tutti. Tutti insieme appassionatamente a farci fottere. Sempre noi eravamo, e applaudivamo.

Noi, quando abbiamo capito che il Grande Capo non aveva più le coperture romane giuste, da bravi opportunisti quali siamo, siamo andati in banca a chiedere che le nostre azioni venissero vendute. E quando questo non è avvenuto e allora abbiamo (finalmente) aperto gli occhi. Noi a dire che siamo tutti assolti perché non coinvolti. Noi non c’eravamo, non applaudivamo.

Noi che il “territorio e l’indipendenza”. Noi che siamo più bravi degli altri perché oculati, parchi. Noi che ci infastidiamo quando ci vengono a chiedere qualche centesimo e che gridiamo “tornatevene a casa vostra”. Noi che siamo stati piegati a 90 gradi per vent’anni davanti al potere e che abbiamo rimesso molto, in alcuni casi, tutto. Noi che ci lamentiamo quando ci accostano agli altri italiani.

Gli stessi italiani che per più volte nel corso della storia, al termine dei vari ventenni imperiali, hanno voltato le spalle ribadendo, giurando e spergiurando, di non essere stati presenti, credenti e obbedienti alle adunate oceaniche, alle parole d’ordine, ai destini fatali di Vicenza capitale dell’Impero. A noi che oggi facciamo cause, interpelli, manifestazioni, cortei contro il Grande Capo e i suoi gerarchi, ricordo che c’eravamo, e applaudivamo.

Articolo ripreso dal sito vox.it – autore: Red Cloud