Uno scambio di opinioni avvenuto su twitter alcuni giorni fa e provocato da un post sul blog del prof.Alessandro Berti -che di rapporti tra banche e imprese mastica molto e bene- mi porta a fare alcune riflessioni sulla questione assai delicata del credito problematico (versione bancaria) delle imprese in difficoltà finanziaria (versione industriale).
Lo spunto sollevato dal prof.Berti è molto preciso: le banche sono troppo lente nell’uscita dal credito verso imprese pericolanti (o forse già decotte) per motivi affettivi, o storici o anche meno nobili. Così facendo peggiorano la propria situazione, perché mantengono in bilancio crediti con scarsa probabilità di rientro, che presto o tardi finiranno nella cesta della biancheria sporca, altrimenti chiamata delle ‘sofferenze‘. Se lo dice, argomentandolo, Berti c’è da crederci, non è casuale visto che ha un piede in tante banche piccole e uno in casa sua.
Dalla parte della difesa su twitter qualche imprenditore e qualche esperto ha obiettato che le richieste di rientro, sicuramente in forte aumento, hanno l’effetto di fare precipitare situazioni aziendali in bilico e in alcuni casi anche oltre il limite ragionevole colpendo imprese ancora sane, a causa del tasso di insoluti in crescita.
Nel mezzo chi vi scrive, che vede con un occhio imprese a pezzi, con pochissime speranze di sopravvivenza, proseguire senza prendere coscienza che la chiusura è l’unica scelta intelligente e con l’altro occhio bancari distratti, che non si accorgono delle crisi se non quando chiamati dai professionisti della crisi, oppure bancari aggressivi oltre misura nell’ansia di recuperare crediti in tempi brevi verso aziende già dissanguate.
Nel mezzo di questo campo da battaglia, in cui non c’è il terzo tempo come nel rugby, perché i contendenti si detestano e non vanno a bersi una birra insieme dopo, le cose sono maledettamente complicate dagli insoluti. Sì perché sono spesso gli insoluti la causa delle crisi, come è successo alla piccola impresa che qualche giorno fa di fronte alle ultime notizie mi ha chiamato per dirmi di avere perso le ultime speranze. Cioè banche e imprese si stanno molte volte scazzottando perché altre imprese non pagano o non pagano per tempo e questo è un fenomeno vastissimo e gravissimo. In parte è dovuto ai fallimenti e ai concordati che generano mancati incassi, in parte alla pessima abitudine di alcune imprese di ricorrere a pratiche scorrette per avere liquidità dalla banca a tutti i costi, anche senza fatture vere. E’ questo il terrore che serpeggia nelle filiali bancarie: finanziare oggetti finti e la segnalazione degli insoluti, che ora si sta estendendo informaticamente anche agli anticipi fatture e non più solo alle ri.ba, è il campanello d’allarme che fa scattare revoche di fidi e richieste di rientro.
Salomonicamente permettetemi di dire che sbagliano entrambi, anche quando credono di avere ragione. Sbaglia l’impresa che messa alle corde cerca di fare fessa la banca, perché il gioco delle tre carte è illegale e non dura a lungo, prima o poi i nodi vengono al pettine, ma anche perché non si rende conto che falsificando le carte danneggia un’intera categoria di colleghi imprenditori, sospettati di essere furbi anche quando sono a posto con la coscienza.
Sbaglia la banca, e con essa il bancario aggressivo –avevo anticipato che sarebbe diventato una guerra sociale tra poveri– perché revoche e richieste di rientro vanno gestite con molta attenzione e maggiore comprensione. Anche con un po’ più di buone maniere, se posso dire per esperienza diretta. Ad alcuni funzionari di banca andrebbe spiegato meglio che se il credito non è garantito, tirare la corda con violenza può solo spingere l’impresa verso una procedura concorsuale che renderà quel credito vuoto, forse 1/10 del suo valore facciale, per quanti avvocati e recuperatori si mettano a scrivere carte.
Sbaglia soprattutto, e perde, il sistema italiano che non ha ancora capito che revocare un fido, se può apparire come un’operazione legittima, produce spesso l’effetto di fare fallire un’impresa, la quale non pagherà i debiti verso altre imprese che finiranno nel medesimo tritacarne creando altri problemi ad altre banche. Un effetto a catena che si sta diffondendo molto pericolosamente in Italia, in cui il primo colpevole è lo Stato che non ha pagato 90 miliardi ai suoi fornitori.
Il sistema sbaglia perché non vuole affrontare il problema per ciò che è, perché ogni singola banca che corre a ritirare fidi lo fa consapevolmente sperando di essere la prima e sapendo di danneggiare i colleghi di altre banche, secondo la vecchia abitudine che l’ultimo resta con il cerino in mano.
Se il sistema bancario prendesse una buona volta atto di questo rischio ‘sistemico’ forse potrebbe trovare soluzioni diverse per evitare l’effetto domino sui crediti delle imprese, cercando soluzioni collegiali e più orientate a salvare tutto ciò che si può salvare di piccole imprese e piccoli crediti a rischio, che sommati tutti insieme hanno prodotto voragini nei bilanci bancari e continueranno a farlo nel 2013 ora che i concordati in bianco sono stati resi disponibili con regole sbagliate. Certo è più difficile e impegnativo sedersi a ragionare rispetto a scrivere una delibera di revoca e messa in mora. Nel contesto di oggi è infinitamente più intelligente, questo va detto.
Quanto alle imprese la mancanza di cultura della gestione delle crisi finanziarie è spaventosa. Un repertorio di rimedi sbagliati, di decisioni tardive, di vera e propria ignoranza sui metodi di gestione delle crisi. Anche in questo caso il sistema ha fallito, il sistema associativo che per anni ha evitato la parola ‘crisi’ e di fare lezioni di salvataggio ai propri associati, oggi si trova solo a raccogliere cocci e magari organizzare un bel convegno sulle nuove procedure fallimentari.
Per chi, come il sottoscritto, si è sgolato per 6 lunghi anni sui pericoli della crisi delle PMI, sia con le banche che con le associazioni, non c’è neppure la soddisfazione di dire ‘ve lo avevo detto’, ma solo una grande delusione.
Articolo ripreso dal blog linkerblog.biz