Marco Bicocchi Pichi il nuovo presidente delle startup italiane

54 anni, Bicocchi Pichi è nato a Lugano ma è cresciuto a Torino, città di sua madre. Qui ha frequentato il liceo con il giornalista economico Oscar Giannino e poi si è laureato in Economia e commercio.

Di formazione liberale e cattolica (la sua tesi al liceo era sul rapporto tra il pensiero politico di Gramsci e Gobetti), ha studiato da manager d’azienda come ha voluto la sua famiglia. E per un lungo periodo lo ha anche fatto.

Nel 2005 decide di trasferirsi a Follonica «sul mare dove da bambino passavo le vacanze con la famiglia» poco lontano dalla Maremma che suo bisnonno ha contribuito a bonificare negli anni 30 del secolo scorso. La strada principale della cittadina toscana ha ancora il suo nome: via Emilio Bicocchi. Imprenditore anche da parte di madre. Era di proprietà della famiglia materna la Diatto, marchio storico dell’automotive italiano e prima macchina posseduta da Enzo Ferrari. «La mia vita si può dividere in due grandi parti. Nella prima ho fatto il dipendente d’azienda e poi il manager per multinazionali dell’informatica (ha lavorato per Eds Electronic DataSystem, oggi HP). Ho seguito l’imprinting della mia famiglia e l’ho onorato. Poi ho deciso di cambiare tutto».

Nel 2008 si licenzia per diventare imprenditore e business angel. «Una decisione maturata con gli anni. Ero stanco di gestire, volevo creare qualcosa di mio. Mi sono sempre considerato un creativo. Da bambino amavo dipingere. Da ragazzo preferivo la filosofia dei greci e degli empiristi inglesi alle scienze fredde». Lasciare un posto da manager non è facile. E Bicocchi Pichi si prende il suo tempo per farlo. Prima con un master in business administration alla Nyenrode Unviversity in Olanda nel 1993, «la Bocconi dei Paesi Bassi». Poi decidendo di dirigere il progetto di Etnoteam per il sito Ducati.com con E-Tree. Lì conosce Riccardo Donadon, con cui inizia a lavorare. «E’ stato il momento più emozionante della mia vita professionale. La mia prima vera startup. Lavorare con Donadon? Non è stato facile. Il carattere di un veneto è duro anche per un milanese. Ma è stato un successo».

Da quel momento comincia ad appassionarsi al mondo del digitale. Nel 2008 ha 47 anni. Gli è appena nato il terzo figlio e decide di prendersi un anno sabbatico. Torna a Follonica per stare con la famiglia. «Volevo godermi quei giorni, era per me la cosa più importante in quel momento». E’ l’anno della svolta. Un incrocio di coincidenze che lo hanno portato a fare quello che avrebbe sempre voluto. «Fare l’imprenditore è stato sempre il mio sogno. Per me è stata come una liberazione: la mia famiglia mi voleva manager, ma io volevo fare qualcosa di mio».

La carriera da business angel

«E’ cominciato tutto per caso. Pochi mesi dopo partecipai ad un convegno dell’associazione Italian Business Angels». E’ la prima volta che sente parlare di startup innovative. Di cosa sono, delle loro potenzialità di crescita, del mercato digitale. «Era un po’ come sentirsi dei pionieri: conquistare un mercato in cui ancora in pochi credevano. Capii che era quello il mio futuro. Che era quello che volevo fare da grande» ricorda ridendo «avevo 48 anni, mi sarebbe piaciuto diventarlo magari 10 anni prima, ma non c’è mai un limite di tempo nella vita. Le cose capitano». Sei anni dopo la stessa associazione lo nomina Business angel dell’anno (2014) «anche se non vuol dire che sono il migliore, c’è gente molto più brava di me». In mezzo ci sono diversi investimenti fatti in startup in cui è entrato nel consiglio d’amministrazione. Alleantia, Nextome, WIB, Condomani. E molte soddisfazioni: «Molti dei ragazzi in cui ho investito stanno facendo bene. Quando Nextome ha vinto il premio al Web Summit di Dublino mi sono scese le lacrime. Vedere crescere queste aziende è un’emozione grandissima».  Nel 2015 ha fondato Symbid Italia, una joint venture per la finanza alternativa e l’equity crowdfunding con Symbid e Banca Sella, di cui è amministratore delegato. L’innovazione lo ha incuriosito. E appassionato. «Sono convinto che sia l’innovazione il futuro dell’economia del nostro paese e mi piace lavorare con tutti gli strumenti che ne fanno parte, dalle digital company al crowdfunding passando per la sharing economy, che è un mondo che mi affascina tantissimo».

Cosa propone per Italia Startup

«Sarà difficile succedere a Riccardo Donadon. Lui è un uomo di visione, sa muovere tantissima energia intorno a sé. Io sono più pratico, più tecnico e meno carismatico» scherza. «E’ questo il primo cambiamento che vorrei portare a Italia Startup. Più azioni concrete per il futuro delle startup». Il suo programma (lungo una decina di pagine, «alcuni mi dicono sia troppa roba, ma è quello in cui credo e giuro che nessuno mi ha scritto nemmeno una riga») l’ha riassunto in un motto che suona così:fare innovative le grandi imprese e fare grandi le nuove imprese innovative.

Ha proposto anche due libri come visione complessiva del suo pensiero: Lean Startup di Eric Ries e Worthless, impossible and Stupid di Daniel Isenberg. Il suo obbiettivo è provare a creare le condizioni perché in Italia nascano i primi unicorni. «Il più grande freno è la mancanza di Venture in grado di investire decine di milioni in aziende innovative. In Italia dobbiamo provare a fare qualcosa che sia in linea con il nostro ecosistema e con il nostro sistema produttivo. Avere one billion companies serve a poco se nessuno se le può comprare. Dobbiamo quindi provare a farne crescere tante con in 500K che sono in media i soldi che si investono in startup. E provare di lì  a fare crescere tutto l’ecosistema in maniera tale che si creino le condizioni per gli unicorni del futuro». Molte startup in grado di raggiungere i 5 milioni di fatturato e entrare in un mercato che sia sì a misura d’Italia, ma che possano attrarre anche i grossi investimenti che l’Italia ora non può permettersi. Per farlo serve una radicale revisione della cultura d’impresa: «I nostri ragazzi non devono avere paura di aprire i board aziendali agli investitori, è con loro che si cresce».

Come farlo? «Dobbiamo fare in modo che in primo luogo Italia Startup diventi uno Scale up». E quindi influenzare i fattori che fanno crescere qualsiasi impresa. Nel programma proposto agli associati i punti ricalcano le voci dell’EBITDA di un’azienda. 1) Aiutare le startup a trovare un mercato, i clienti, con la rete di relazioni che ruotano intorno all’associazione e con missioni all’estero e partecipazione agli eventi 2) diminuire i costi proponendo spese comuni per le startup che usano gli stessi prodotti e servizi 3) Favorire l’eccesso ai capitali esteri 4) lavorare affinché la tassazione sulle imprese innovative sia meno pesante. «Italia Startup è ad oggi il posto migliore per lavorare al futuro dell’ecosistema italiano delle startup. Per me sarebbe un onore farne il presidente, anche se non è ancora detto. I ribaltoni sono dietro l’angolo. Però potrei coronare un sogno personale e contribuire a realizzare il compito sociale che sono convinto la cultura d’impresa abbia per ogni paese. E che tanto serve al nostro».

Italia Startup finora è riuscita abilmente in un ruolo di lobbiyng che ha portato alla definizione di un quadro normativo favorevole alle startup. Leggi, agevolazioni, registri con un numero di startup che ha raggiunto quota 4mila in Italia. Tanta quantità. Ora tocca far valere la qualità delle imprese innovative intaliane, da fare crescere in un ecosistema non certo favorevole. La strada pensata da Bicocchi Pichi va in questa direzione. O almeno ci prova. Un’alternativa all’asfissia che frena capitale di ventura italiano. Che sia la strada giusta è presto dirlo. Ma è una strada, ed è importante averne una. Perché questo cambio di Italia Startup è un po’ la metafora dell’ecosistema italiano delle startup. A cui serve, e tanto, trovare una strada per crescere.

 

Articolo parzialmente ripreso dal blog di startupitalia.eu – autore: A. Rocola