Metti una sera a cena con un gruppo di persone che mai avrebbero pensato di trovarsi insieme, per piacere o per affari. E che adesso hanno in comune una moneta che non c’è: a Roma si chiama Tibex, e cerca di emulare le gesta del più famoso Sardex, l’enfant prodige delle monete complementari.
Cresciuto a ritmi mirabolanti negli anni in cui tutto scendeva, nel mondo e soprattutto nella Sardegna deindustrializzata. Entrato anche in qualche comune e nei bilanci di gruppi importanti, e negli appunti degli studenti di economia politica dei nuovi media alla London school of economics. Oggetto del desiderio dei no euro, del dileggio di chi ci vede una nostalgia del baratto, il sardex e tutto il mondo delle monete complementari sono quasi sempre considerati come una curiosità o un’utopia; raramente come una realtà economica, piccola e locale ma in crescita.
Lo sbarco a Roma
Di sistemi antincendio capita di installarne uno all’anno, massimo due. Ma la manutenzione è continua, le regole da rispettare tante e dunque il lavoro non dovrebbe mancare. Questo si sono detti i fratelli Cecchini, imprenditori nel settore. Vivono a Civita Castellana, il loro lavoro gravita su Roma e tutta la provincia. Alla cena dei soci Tibex, David Cecchini ha un sorriso che prende tutta la faccia, e non solo per la qualità dell’amatriciana. “Da quando lavoriamo col tibex abbiamo svoltato. Il problema non era il lavoro, ma i pagamenti, la continuità, e la liquidità”.
Il tibex è la moneta complementare nata nel Lazio da due anni. Ha le stesse caratteristiche del sardex e di tutto il circuito di credito commerciale che piano piano si sta allargando in Italia, prendendo un nome diverso in ogni regione: una moneta virtuale, cioè che non esiste come carta ma come unità di conto e pagamento su una piattaforma digitale; vale un euro, ma non si può cambiare con l’euro; serve per comprare e vendere all’interno del circuito; non dà interessi; e non si accumula: va spesa, in un arco di tempo concordato.
“È un circuito di mutuo credito, non un baratto”, hanno scritto sulla rivista online del Mulino Laura Sartori e Paolo Dini. Però intanto il circuito è cresciuto: nel 2016 è arrivato a far girare 2,1 milioni di tibex, erano stati 1,2 milioni nel 2015. E nell’ultimo anno tra i circa 300 soci sono state transate in tibex più di 1.500 operazioni. Al confronto, il “vecchio” sardex (anno di nascita 2009) è un gigante: 140 milioni transati in quattro anni, 300mila operazioni, 3.500 iscritti.
Per questo i neofiti protagonisti dello sbarco a Roma si sentono a metà tra gli startupper e i missionari; e accettano volentieri, nel corso della cena tibex-centrica (si paga in tibex, in un ristorante del circuito tibex, e tutto l’incasso andrà a finanziare donazioni in cibo pagato con tibex per la Comunità di Sant’Egidio), di raccontare concretamente come funziona la moneta che non c’è.
La prima difficoltà è far capire come funziona e perché conviene
“Io adesso ho in moneta complementare il 25 per cento del mio fatturato”, racconta Giancarlo D’Andrea, imprenditore sardo-romano, che è un socio-utilizzatore del sardex della prima ora e adesso partecipa anche al circuito laziale. D’Andrea ha una azienda che si chiama “626 school”, e si occupa di formazione sulla sicurezza sul lavoro. Anche se qualcuno è scettico sulla possibilità che un esperimento del genere funzioni nel gigantesco calderone dell’economia della capitale, D’Andrea è fiducioso. “Anche per i sardi dicevano così, che non era nella loro mentalità. E adesso siamo al punto che è in vendita il primo appartamento in sardex: 250mila, prezzo di partenza”. Racconta che la prima difficoltà è far capire come funziona e perché conviene.
Chi entra nel circuito mette in vendita, in moneta complementare, i suoi prodotti o servizi. Per esempio, il ristoratore vende i suoi pasti. E accetta di essere pagato in sardex (o tibex, o una delle altre nove realtà esistenti, a seconda del circuito locale in cui sta), con i quali potrà comprare altri beni da altre persone del gruppo: per esempio, carne da un macellaio, pulizia delle tovaglie dalla lavanderia, la tenuta della partita iva da un consulente fiscale, o un corso di formazione per la sicurezza dall’impresa di D’Andrea. In sostanza, chi vende la sua merce ha un credito che spenderà all’interno dello stesso gruppo: ma non deve chiedere liquidi in banca né poi deve pagare interessi.
Tutto è tracciato, dunque su tutte le operazioni si pagheranno poi – in euro – le tasse: elemento da non trascurare, soprattutto in zone del paese e dell’economia, come i servizi, nelle quali il sommerso è molto diffuso.
Ci sono anche i broker
Ma come si fa a sapere se il prezzo è giusto? “Questo è il problema che affrontiamo quotidianamente con i nuovi entrati”, racconta Doriana Arquilla, broker di Tibex. Laureata in comunicazione d’impresa, dopo un’esperienza come manager nei reparti dell’assistenza ai clienti di un gruppo commerciale tedesco si è spostata nell’azienda Tibex. Dove un piccolo drappello assai giovane di persone come lei fa appunto da “broker”: da mediatore, o meglio ancora da facilitatore per far incontrare domanda e offerta.
“Prima di tutto spieghiamo l’utilizzo della piattaforma e dei suoi strumenti di base. Il conto Tibex è come un conto bancario, dunque bisogna usare gli strumenti di pagamento online, ma questo è molto semplice. Poi aiutiamo i soci, analizzando i conti e la struttura del loro business, a capire cosa c’è nel circuito che può essere utile e può sostituire altre voci di costo in euro. Gli consigliamo a quel punto di farsi fare un preventivo e valutare”.
Permettono di riempire i tavoli, cioè di accogliere tutta l’offerta di un imprenditore, un’azienda, un professionista
L’esempio più semplice: il ristorante appena entrato potrà usufruire di servizi di lavanderia. “I prezzi sono più o meno quelli di mercato. Però il nostro ristoratore li paga al costo marginale dei propri pasti, quelli che ha messo in vendita sul circuito su tavoli che altrimenti sarebbero rimasti vuoti”.
Qui entra in gioco un altro elemento importante delle monete complementari: andando ad aggiungersi e non a sostituirsi alla moneta ufficiale, permettono di “riempire i tavoli”, ossia di accogliere tutta l’offerta di un imprenditore, un’azienda, un professionista. “Siamo costruttori di una comunità che fa circolare un’economia che non gira”, riassume Giovanni Ineichen, amministratore delegato dell’impresa che gestisce Tibex.
Poiché queste monete non danno interesse e non possono essere accumulate – ci sono regole precise sui conti dei soci, nessuno può restare troppo tempo a debito o a credito – viaggiano speditamente e finiscono con l’attivare la spesa: “La velocità di circolazione del sardex è otto volte superiore a quella dell’euro”, spiega Ineichen. “Così si monetizza l’economia inespressa”, sintetizza Paolo Dini, docente alla London school of economics, dove tiene un corso su economia politica dei nuovi media nell’ambito del quale il sardex è oggetto di studio, assieme ai suoi antichi e nuovi fratelli, presenti da tempo nella storia e nella teoria monetaria ma solo di recente rivitalizzati da due nutrici: la crisi economica e la tecnologia.
La più grande, al momento, si chiama Wir ed esiste in Svizzera dal 1934, quando era appena finita la grande depressione: la usano 62mila imprese, e muove l’1 per cento del pil svizzero. Ma la storia delle monete complementari è molto più antica, si può far risalire all’écu de Marc usato in Francia nelle fiere tra i mercanti del cinquecento; o, in tempi più recenti e in ambito istituzionale, all’Unione europea dei pagamenti, creata da un’idea di Keynes per l’Europa del dopoguerra per affiancare il nuovo sistema monetario nato a Bretton Woods (fu in vigore dal 1950 al 1958).
Negli ultimi casi citati, è più forte l’intento di creare un’economia alternativa e ispirata a valori sociali. Ma sono mezzi di pagamento non ufficiali e complementari anche tanti altri sistemi, nati in ambito del tutto commerciale: i punti millemiglia delle compagnie aeree o quelli Wii che si scambiano i ragazzi, come quelli dei supermercati o i buoni pasto, e anche – new entry – i voucher per pagare il lavoro. E lo è anche la regina delle monete elettroniche, quel bitcoin il cui crollo sta preoccupando mezzo mondo. Come orientarsi in questo dedalo? Come dare la “patente” di moneta complementare, se per definizione queste non sono certificate da un bollino di un’autorità?
“Circuiti come quello del sardex funzionano in particolare in momenti di crisi e per economie locali. Hanno tutte le caratteristiche essenziali della moneta. E hanno una particolarità: l’assenza del tasso di interesse”. Paolo Dini, che con altri autori ha pubblicato alcuni studi sull’argomento, parte dagli elementi essenziali che definiscono una moneta: essere unità di conto, mezzo di scambio e di pagamento, deposito di valore. Il sardex queste caratteristiche ce le ha tutte, dunque è una moneta anche se non è stampata né coniata. Gliene manca un’altra, propria delle monete del mercato capitalistico: non dà interessi. Non ha un valore in sé ma per quello che può comprare: in questo, chiarisce Dini, è l’opposto di bitcoin, moneta digitale fluttuante, che è essa stessa oggetto di investimento e speculazione.
L’elemento della fiducia
Insomma, poiché non rende niente tenersi da parte i sardex (o i tibex), tocca spenderli: si disinnesca così in partenza quella trappola che ogni tanto blocca l’economia, come sta succedendo adesso. Quella che Keynes chiamava la “trappola della liquidità”, che “a ogni tentativo di uscirne ci invischia ancora di più”, scrivono Massimo Amato e Luca Fantacci, economisti della Bocconi in un e-book dedicato alla moneta complementare. In un momento storico nel quale inutilmente la Bce prova a pompare liquidità nel sistema, dunque a far circolare moneta, “una moneta che non sia riserva di valore è una moneta fatta per circolare”, “impedisce la costituzione di un mercato della moneta”, tende a “ridurre le oscillazioni cicliche, se non addirittura a rimuoverne le cause”. Dunque se c’è recessione dà una mano a uscirne, o a sopravvivere.
In una prima battuta si risolve, almeno per una parte del proprio business, il problema della liquidità
Il successo sardo, in una regione che intanto attraversava la sua peggior fase economica, non si deve solo alla geniale intuizione di cinque ragazzi di Serramanna, paese nel quale sono cresciuti i fondatori di Sardex (Gabriele e Giuseppe Littera, Carlo Mancuso, Piero Sanna e Franco Contu), ai loro studi e alla loro capacità. Ma anche al fatto che l’esperimento è arrivato nel pieno del “credit crunch” italiano, in una crisi bancaria che all’epoca era ancora nascosta ai mezzi d’informazione ma bene in vista per i piccoli imprenditori, gli artigiani, i professionisti. “Prospettare una soluzione locale ma non localistica a una crisi generatasi sui mercati finanziari globali è un atto propriamente politico”, scrivono Amato e Fantacci.
Questo non vuol dire che si tratti di circuiti di militanti oppure di comunità con una comune collocazione politica. Lo spirito di comunità e l’elemento della fiducia reciproca conta molto, ma di solito si scopre dopo, la prima spinta per entrare è quella economica. “In una prima battuta si risolve, almeno per una parte del proprio business, il problema della liquidità”, spiega Giancarlo D’Andrea, “ma poi si capisce che così si può anche allargare il mercato, conoscere e farsi conoscere, creare rapporti basati sulla fiducia”. Si crea un ambiente, dice Paolo Dini, “che lascia spazio ai valori sociali, tappando il buco della finanziarizzazione”. In questo, dati i tempi di sfiducia che corrono, sta la portata alternativa degli esperimenti come Sardex e Tibex: non certo nel loro proporsi come alternativa piena all’euro, del quale anzi sono, per definizione, un complemento.
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Fonte: internazionale.it – autore: R_Carlini
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