Saresti contento se tuo figlio lavorasse in una startup? Con oltre il 40% di disoccupazione, che sta diventando nuova emigrazione, non sarebbe poi così male. Chi esce dalle nostre scuole e dalle nostre università dovrebbe sempre fare un’esperienza di autoimprenditorialità, fondando almeno una startup. Credo valga più che sedere a una scrivania di una grande azienda, in cui non sempre si impara qualcosa e si impiega il proprio tempo in modo produttivo.
È ovvio che molte startup falliranno, ma le persone che vi avranno lavorato, avranno sempre fatto una grande esperienza professionale e di vita, e avranno molte più possibilità di trovare presto un nuovo lavoro. Spero in Italia, certamente all’estero, con buona pace di chi grida allo scandalo per la “fuga dei cervelli”.
Una parte di startup, però, vivrà. Felice di diventare una piccola o media impresa italiana del XXI secolo, guidata dai nuovi imprenditori di un’Italia che può tornare a essere leader in Europa in molti settori. Alcune, infine, magari poche, potranno diventare le nuove grandi aziende. Compreranno o supereranno gli attuali carrozzoni pubblici e privati, che hanno schemi organizzativi volti a frenare più che a fare, e che stanno investendo troppo poco in settori vitali come green economy e digital economy.
Chiunque dia oggi un contributo di idee, finanziario, legislativo, all’ecosistema delle startup, sta offrendo un contributo al futuro produttivo del nostro Paese. Gli investimenti in startup sono quelli che hanno maggiori possibilità di tradursi in posti di lavoro produttivi, a tempo indeterminato, retribuiti in modo equo.
Alcune delle iniziative che abilitano questo ecosistema, come Working Capital, sono state anzitutto grandi operazioni culturali, e quindi politiche. Bisogna però fare in modo che fallire sia vista come una possibilità e un’esperienza normale di vita, e non una condanna quale viene considerata nel comune sentire dell’imprenditoria del nostro Paese.
Tuttavia, se si vogliono aumentare le probabilità di successo, bisogna detassare completamente le startup per i primi 5 anni. Lo Stato deve recuperare i soldi da chi evade le tasse e li deve investire nelle startup. Di certo, non deve prendere soldi dai neo-imprenditori. Le banche dovrebbero erogare mutui a tasso agevolati (Euribor + 2% al massimo) a fronte di garanzie solo aziendali, senza richiedere garanzie personali. Ma – verrebbe da dire – meglio così, meglio che le banche si disinteressino alle start up.
Le startup fanno già di questa necessità, una grande virtù. Non vanno in banca a cercare soldi. Entrano in contatto con società di venture capital e parlano conbusiness angels. Questi signori fanno parte integrante dell’ecosistema delle startup. Sono i colleghi di quelli che hanno messo i soldi, fin dall’inizio, in WhatsApp, Google, Facebook. E prima ancora in Apple e in Microsoft.
Vorrebbe dire capitalizzare le nuove imprese italiane, mettere i soldi propri, e poi utilizzare i soldi che arrivano dai primi investitori, e poi quelli che arrivano dai clienti. Successivamente si potranno chiedere soldi ad altri potenziali soci, per esempio fondi di private equity e fondi di investimento. Però, sempre e solo persone e società che rischiano con le startup e con le imprese, che non chiederanno mai la fideiussione del padre o del nonno e non vorranno una garanzia sulla casa degli startupper. Se le cose andranno bene, guadagneranno. Se andranno male, perderanno i soldi che hanno investito.
Nei principali paesi europei, circa la metà dei soldi che finanziano le imprese viene dalle banche, l’altra metà viene da altre fonti. In USA, solo il 25% viene dalle banche. In Italia, ultimi anche in questo, il 75% dei soldi che finanziano le imprese vengono ancora dalle banche.
Articolo di Danilo Colevecchio
Fonte: www.wcap.tim.it
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