Prendiamo esempio dall’Argentina e privatizziamo le banche dice Eugenio Benetazzo

In pochi ne sono a conoscenza, ma Cristina Fernandez de Kirchner, attuale primo ministro argentino (in vero il titolo è Presidente della Nazione) è con grande presunzione uno tra i primi cinque migliori governatori al mondo.
L’Argentina sotto la sua guida, emanazione e continuazione di quella del defunto marito Nestor Kirchner, sta sorprendendo il mondo, in tutti i sensi. Il programma di governo, di impronta socialista se non nazionalista, sta consentendo una impensabile recupero e trasformazione per l’economia del paese dei Tango Bond che fino a dieci anni fa veniva denigrato ed odiato da quasi tutto il mondo per il suo salutare default finanziario (salutare per la sua popolazione).
Sotto la guida di Cristina, l’Argentina ha in meno di cinque anni dimezzato il tasso di povertà (su base demografica) e raddoppiato al tempo stesso il tasso di istruzione, aumentando la percentuale del PIL (dal 3% al 6%) investito in miglioramenti infrastrutturali per l’educazione scolastica proponendo ad esempio l’accesso al web a tutti.
La Fernandez è un premier da invidiare: il suo operato di stampo peronista è volto a far crescere il paese ed a proteggerlo al tempo stesso. Con il neocostituito Ministero della Produzione e la detassazione dei capitali provenienti dall’estero, Cristina dimostra di avere le idee molto chiare: la nuova politica industriale argentina deve essere volta a creare occupazione incentivando le grandi multinazionali ad insediarsi per creare nuovi posti di lavoro attraverso benefits fiscali allettanti (noi italiani facciamo il contrario).
La politica nazionalista non trova miglior paese al mondo in cui manifestarsi ed esprimersi arrivando persino ai piani di rimpatrio dei ricercatori argentini trasferitisi all’estero: sostanzialmente si richiamano in patria gli argentini che se ne sono andati perchè non remunerati o gratificati in patria (anche qui noi italiani potremmo fare scuola).
L’ultima provocazione (da ammirare e copiare) è il piano di nazionalizzazione (per non dire esproprio) della partecipazione detenuta dal gigante petrolifero spagnolo Repsol sulla YPF (Yacimientos Petrolíferos Fiscales), l’azienda petrolifera dello stato argentino.
Quest’ultima, prima privatizzata e dopo acquistata interamente nel 1999 dalla Repsol appunto. In buona sostanza la Kirchner vuole riprendersi con un atto di sovranità popolare una risorsa strategica per la nazione: il petrolio argentino. Vai Cristina facci sognare.
Magari anche in Italia ci fossero leader e rappresentanti degli interessi della nazione di questa portata. Sulla scia dell’esempio argentino infatti il nuovo e futuro leader italiano (non Mario Monti che ormai si è trasformato di fatto da tecnico a politico) dovrebbe replicare questo operato, espropriando per motivazioni di interesse nazionale le partecipazioni che detengono le varie fondazioni nelle due grandi banche italiane (Unicredito e IntesaSanPaolo).
Nello specifico, il nuovo premier italiano dovrebbe nazionalizzare le quote detenute da Fondazione Cariverona e Fondazione Caritorino in Unicredit Banca rispettivamente del 3,5 % ciascuna, trasformando lo Stato Italiano nel primo azionista assoluto (la Libia sarebbe al 7,5% mettendo insieme Libia Investment Authority e la Banca Centrale Libica).
Uguale operazione si dovrebbe implementare con IntesaSanPaolo nazionalizzando le quote detenute dalle Fondazioni San Paolo (10%), Cariparo (5%), Cariplo (4,7%) e Caribo (2,7%) arrivando a controllare quasi il 25% della banca.
A quel punto spingere a una fusione tra i due istituti orchestrata dallo Stato per costituire la più grande banca italiana privata (ma soggetta a controllo e governance pubblico) e la terza in Europa per patrimonio netto tangibile dopo Deutsche Bank e Credit Agricole (stando almeno ai dati di Giugno 2011). La banca così costituita potrebbe migliorare notevolmente la propria redditività complessiva riducendo corposamente i costi operativi, rafforzando il suo patrimonio attraverso dismissioni di immobili (pensate a quante filiali verrebbero smantellate a parità di assets e impieghi complessivi postfusione).
A quel punto avendo una banca a controllo statale rafforzata nel patrimonio e più competitiva (che detiene oltre il 60% del mercato dei servizi bancari) si potrebbero intraprendere tutte le nuove riforme che necessita oggi il mercato del credito rivedendo le modalità di supporto ed affiancamento alla piccola e media impresa, certi che la nuova banca diverrebbe uno straordinario strumento di politica economica non convenzionale sotto l’egida dello Stato nell’interesse della nazione.
Articolo ripreso da eugeniobenetazzo.com