Atene e le operazioni “di sistema” erodono l’utile delle Generali. Al 30 settembre, la compagnia assicurativa triestina ha segnato un utile in contrazione a 825 milioni di euro rispetto a 1,13 miliardi nel settembre 2010 (-37%).
Un risultato in linea con il consensus (la media delle previsioni) degli analisti, a causa di svalutazioni complessive pari a 824 milioni. Circa 329 milioni di queste svalutazioni sono state effettuate su obbligazioni elleniche, 495 milioni sul portofoglio azionario e altri 143 milioni su Telco, la cassaforte – partecipata anche da Intesa Sanpaolo, Mediobanca e dagli spagnoli di Telefonica – che controlla Telecom Italia.
Il risultato operativo dei nove mesi è stabile rispetto allo stesso periodo del 2010 a quota 3,1 miliardi, grazie alla crescita (+36,4%) del segmento danni, salito a 1,2 miliardi di euro, migliore performance degli ultimi tre anni. I premi lordi complessivi sono diminuiti a quota 51,3 miliardi di euro (-4,6% rispetto a 53,8 dei nove mesi 2010), dei quali 34,4 miliardi (-7,7% a/a) ascrivibili al ramo vita e 16,9 miliardi (+2,3% a/a) al ramo danni. Il combined ratio – cioè il rapporto tra costo dei sinistri (più le spese di acquisizione) e i premi raccolti – scende di due punti percentuali a quota 96,6% (98,8% nel settembre 2010).
Ciò significa che continua a ricevere più soldi dalla raccolta premi di quanto ne spenda per i risarcimenti. L’esposizione nominale sul debito dei Piigs, al 30 settembre, ammontava a 11,6 miliardi di euro, mentre quella netta ammonta a 3,2 miliardi. Nella composizione del portafoglio investimenti, scendono di poco i titoli di Stato rispetto al settembre 2010, dal 40 al 39,8%, mentre la componente azionaria passa da 7,5 a 5,8% e rimane sostanzialmente stabile la quota immobiliare, da 4,8 a 4,9 per cento.
Nel corso della conferenza telefonical, il direttore finanziario Raffaele Agrusti ha spiegato di non aver intenzione di modificare l’esposizione verso i titoli di stato italiani: «A fronte di circa 100 miliardi di riserve tecniche, circa la metà sono titoli governativi italiani», anche se in un contesto di bilanciamento con obbligazioni corporate.
Sulla spinosa questione del dividendo, l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto ha tranquillizzato gli analisti affermando che «non ci sono motivi per cambiare le indicazioni», sostenendo però che ogni decisione sarà basata sui risultati di fine anno e sul livello di solvibilità.
Attualmente il dividendo è fissato al 40% degli utili. Al momento, però, il coefficiente di solvibilità, che misura la patrimonializzazione delle imprese, è al 118%, su è del 100 per cento. Tuttavia, non è un livello altissimo: è più vicino a una compagnia in difficoltà come FonSai (111%) che non ai grandi big europei, concorrenti del Leone, come Allianz (166%) e Axa (182%).
Alla stregua del coefficiente di patrimonializzazione Tier 1 per le banche, il coefficiente di solvibilità misura la quota di patrimonio libero eccedente gli impegni della compagnia verso gli assicurati. Ad attirare l’attenzione degli analisti, nel corso della presentazione dei conti, è stata una questione tecnica di fondamentale importanza. Nel novero delle svalutazioni non è stata conteggiata la perdita di valore borsistico delle azioni Intesa Sanpaolo (circa 1 miliardo di euro), detenute nel portafoglio attività disponibili per la vendita (Afs). La normativa vigente consente, infatti, di non includere le variazioni di valore dei titoli del portafoglio Afs nel conto economico, e quindi nell’utile.
Eventuali oscillazioni incidono direttamente sul patrimonio netto, che a fine settembre era pari a 15,8 miliardi di euro (-9,4% su settembre 2010). Secondo i calcoli di Generali, la riduzione di 7 punti percentuali, cioè 1,3 miliardi di euro, nei requisiti di Solvency relativi al terzo trimestre dell’anno, deriva dall’applicazione della normativa italiana, che non consente di includere nelle riserve le plusvalenze sugli investimenti immobiliari.
Se, da un lato, la legge italiana deprime il coefficiente di solvibilità, dall’altro il Ddl anticrisi ha dato una grossa mano alle compagnie assicurative, lasciando la facoltà di valutare al costo storico, e non a quello di mercato, i titoli di stato italiani. Nel caso di Generali, l’ammontare in questione è considerevole: circa 50 miliardi di Btp, Bot e consimili, di cui Agrusti non ha però voluto rivelare il valore di mercato alle quotazioni attuali.
Testo ripreso da linkiesta.it