Noi lo abbiamo detto l’altro ieri, ma questo bell’articolo di Mariangela Pira sull’Inkiesta lo spiega con maggiore dovizia di particolari. Tutto da leggere.
La notizia di un acquisto significativo di titoli di stato e investimenti in società strategiche italiane da parte della Cina ha illuso per un po’ i mercati ed occorre capire se ci sia sostanza e che sostanza sia.
Da una parte, le certezze: l’intenzione italiana di trovare nuovi investitori. Nonostante il ministro Tremonti sia sempre stato molto scettico nei confronti della Cina, si rende ben conto di come in questo momento l’Asia sia il motore dell’economia a livello globale, e l’unico ad avere la liquidità a noi necessaria. Nel corso della visita in Italia del futuro presidente cinese Xi Jinping a giugno, durante quella del Dg del Tesoro Vittorio Grilli a Pechino ad agosto e quella di questi giorni della delegazione cinese a Roma, la speranza è stata che Pechino venga in soccorso alle finanze italiane.
Dall’altra parte c’è invece la nebulosità cinese: la China Investment Corporation, il fondo che sarebbe disposto a comprare i titoli di debito italiano, è molto meticoloso e accurato nei propri investimenti che sono tutti autorizzati dalla Bank of China. La Banca centrale cinese all’estero opera soprattutto attraverso due rami: il Cic e il Safe. China Investment Corporation è stata fondata nel settembre 2007 e gestisce, ad ora, masse per 410 miliardi di dollari. È il secondo fondo sovrano cinese, quinto al mondo per capitale di investimento. Il fondo non è certo indipendente, ma risponde al Consiglio di Stato cinese e lo stesso presidente, Lou Jiwei, è l’ex ministro delle finanze cinese. Il binario di investimento di questo fondo è domestico ed estero allo stesso tempo con un duplice obiettivo: massimizzare i ritorni di lungo termine sugli investimenti e ricapitalizzare importanti istituzioni bancarie domestiche. Il Cic si muove a braccetto con la China State Administration of Foreign Exchange, che amministra il grosso della montagna di riserve in valuta straniera pari a 3.200 miliardi di dollari.
La Cina non è attenta, ma attentissima ai propri investimenti e in Europa in questo momento ci sono aste più interessanti altrove. Fonti italiane in Cina sospettano che quanto riportato dai quotidiani possa essere una mossa pilotata dall’entourage di Tremonti in vista dell’asta Btp di stamattina da 7 miliardi (la prossima sarà quella del 15 settembre da 10 miliardi di Btp e la successiva quella del 30 settembre da 9 miliardi di certificati zero coupon, i Ctz). Ci sono contatti e richieste di finanziamento da parte italiana ma non ci sono assolutamente accordi o certezze di investimenti cinesi nei nostri titoli di stato. E infatti poco fa il fondo sovrano cinese ha smentito che la missione di pochi giorni fa in Italia avesse l’obiettivo di esaminare eventuali acquisti di titoli di Stato italiani dicendo di essere semmai interessati alla valutazione di possibili investimenti industriali. Nei mesi scorsi inoltre la Cina aveva dichiarato l’intenzione di aiutare Grecia, Portogallo e Irlanda ma di fatto i suoi acquisti sono stati in linea con quelli degli altri paesi.
Pechino non ha di certo salvato i paesi dell’eurozona in difficoltà. Se la Cina ha effettuato un importante investimento nel debito irlandese – fonti affermano ne possieda il 70% – è perché il mare irlandese è pieno di petrolio. I cinesi non fanno nulla per nulla e si muovono su due direttive: le materie prime e il controllo strategico dei mercati. È per questo che quando si contesta la loro gestione dei diritti umani scrollano le spalle. Sanno di essere nella posizione per poter mettere in difficoltà gli altri governi. E gli stessi Stati Uniti, di cui i cinesi sono il maggiore creditore estero con oltre 1.000 miliardi di dollari di debito statunitense, hanno abbassato la testa su temi come questo.
Un episodio accaduto due anni fa può aiutare a capire, come ricorda Saro Capozzoli che lavora in Cina da 20 anni dove ha portato a investire circa 600 aziende europee. Parliamo della missione strategica che fece nel mese di maggio l’allora vice ministro Adolfo Urso, uno di quelli che aveva maggiormente capito il discorso Cina. Era andato a Pechino con una lista di circa 300 società italiane in crisi da salvare, per la gran parte piccole e medie aziende. I cinesi risposero picche, non sono quelle che vogliono.
Piuttosto erano e sono interessati a Eni, a Enel, ad aziende pubbliche, e non certo a Pmi, tantomeno se decotte. I cinesi stanno già comprando un po’ di debito italiano, ne comprerebbero in quantità più ingente solo di fronte a un ingresso in aziende pubbliche strategiche. Su Eni per esempio hanno sempre puntato. «Un economista che lavora per il governo cinese una volta mi ha detto – ricorda un fonte – ma scusate, fate entrare i libici in Unicredit e create problemi alla Cina? Unicredit dai cinesi potrebbe essere mangiata in un boccone in questo momento». Saro Capozzoli ricorda invece che il nuovo console a Shanghai è un ex manager Eni, Vincenzo De Luca, che sta cercando di portare in Cina un approccio più economico e concreto ai rapporti con Pechino. In Africa i cinesi si trovano spesso a competere con l’Eni; una partecipazione nel cane a sei zampe renderebbe quindi più facili le mosse di Pechino nel continente nero oltre ad acquisire nuove competenze e conoscenze.
Molta confusione c’è anche sui numeri relativi agli investimenti cinesi in Italia. La cifra circolata all’inizio di quest’anno indicava la Cina come detentore del 13% del debito pubblico italiano. Non ci sono dati ufficiali che lo confermino ma il Financial Times oggi parla di un 4%, citando fonti governative italiane. Partiamo da un’analisi certa degli investimenti cinesi in Italia così come riportati dal Ministero del Commercio in Cina, il Mofcom. Gli investimenti totali cinesi verso l’estero, nel settore non finanziario, sono pari a 60 miliardi di euro, e comprendono anche l’acquisto di aziende e asset. Fonti governative cinesi sostengono che il sistema italiano non sia fatto per attrarre investimenti. Citano in particolare la normativa italiana definendola schizofrenica non solo per i cinesi ma anche per gli italiani stessi. Una fonte da Shanghai descrive per esempio il problema della scarsa certezza delle norme «abbiamo paura di trovarci di fronte a regole cambiate in corso d’opera, cosa che non succede in altri paesi».
Ripreso da Linkiesta.it