“Rivogliamo la lira”, “torniamo alla lira”: lo si sente nei bar, lo si legge sui giornali e sui social network, lo ripetono sempre più spesso politici di uno schieramento trasversale che Giuliano Amato ha definito il “partito della lira”.
Un partito che potrebbe diventare l’anima di una nuova e antica destra italiana che oggi sta nel Pdl e nella Lega e che potrebbe accasarsi anche dalle parti della sinistra “anti-banchieri”. Un partito che potrebbe ingrossare in campagna elettorale e perfino vincerle le elezioni, all’insegna di una campagna tutta incentrata sulla nostalgia per il “vecchio conio” e sul rifiuto dei “diktat europei”.
Ma quello che gli economisti da bar e i politici anti euro non dicono è che la cara vecchia lira sarebbe soprattutto cara, se tornassimo a usarla. Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore riporta uno studio della Bertelsmann Stiftung che fa il conto: ci costerebbe subito fra i 9.500 e gli 11.500 euro a cranio, pari al 40-50% del Pil.
Poi negli anni successivi 3-4 mila euro ogni 12 mesi che passano in compagnia della cara vecchia lira. Questo perché l’uscita dall’euro innescherebbe un effetto domino:
Per i Paesi più deboli e indebitati come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, un ritorno alle monete nazionali comporterebbe una svalutazione ipotizzata fino al 60% rispetto al blocco euro. Con crollo degli investimenti transfrontalieri, ripristino dei controlli sui movimenti di capitale, forte perdita di fiducia all’interno del sistema finanziario, enormi ostacoli tecnici e legali. Non solo.
Economia in deflazione, caduta delle entrate fiscali e impennata del deficit pubblico. Data la maggiore difficoltà a finanziarsi sul mercato dei capitali, due scelte possibili: varare pesante austerità o stampare moneta. Inflazione, erosione del risparmio.
La probabile conversione del debito dall’euro in moneta nazionale verrebbe classificato come default. Costi di finanziamento e premi di rischio salirebbero di 700 punti base. L’analogo processo per i depositi delle banche, tra l’altro ormai impossibilitate a battere liquidità alla Bce, vedrebbe il ritorno dei controlli e tetti giornalieri al ritiro di cash per bloccare fughe dei capitali. A una svalutazione del 60% i partner Ue risponderebbero con dazi del 60% sull’export dei separatisti. Fine anche dell’Unione europea.
Quello che lo studio della Bertelsmann Stiftung non dice è che aumenterebbe – e tanto – anche il costo dell’approvvigionamento energetico, con una valuta “leggera” come la lira che dovrebbe acquistare materie prime i cui prezzi sono fissati in valute “forti”: per esempio il prezzo di un barile di petrolio, che si calcola in dollari. Ma se Roma piangesse, neanche Berlino riderebbe:
Nemmeno per i magnifici quattro della tripla A, Germania, Olanda, Finlandia, Austria (lo studio non considera Francia e Lussemburgo della partita) sarebbe un affare uscire dall’euro. Tutt’altro. Il grande marco si apprezzerebbe subito del 40% rispetto all’euro, facendo crollare l’export tedesco e mettendo fuori mercato le sue piccole e medie imprese. Il mini-club si ritroverebbe con il debito detenuto in euro svalutato rispetto a quello nella nuova moneta e proteste assicurate da parte dei detentori. Con la necessità di convertire tutte le obbligazioni societarie e di ricapitalizzare le banche commerciali con asset in euro. E l’aumento di 200 punti base dei costi di finanziamento.
Tra moneta forte, reciproche barriere tariffarie, riduzione della crescita economica nell’area euro, il volume del commercio tra ricchi e poveri crollerebbe del 20%. Costo pro capite immediato per la Germania tra 6mila e 8mila euro, pari al 20-25% del Pil. E negli anni successivi di 3.500-4.500 euro. Il tutto, quando per i tedeschi i costi di un default congiunto di Grecia, Irlanda e Portogallo, accompagnato dalla ristrutturazione del debito con haircut del 50%, supererebbero di poco i mille euro a testa.
Dall’euro, insomma, se ne esce solo a prezzo di una devastazione finanziaria, economica e alla fine anche politica. Ma vaglielo a spiegare al tuo vicino di bancone al bar, che già si frega le mani al pensiero di pagare quel caffè che sta bevendo 15 mila lire, magari lasciando una mancia di 5 mila. Vaglielo a spiegare, soprattutto al politico “responsabile” (nel senso scilipotiano del termine) che vorrà farsi interprete di questa nostalgia valutaria, e che sarebbe ben contento di continuare a ricevere il suo vitalizio, anche in lire.
Testo articolo ripreso da blitzquotidiano.it