Gli istituti di credito hanno sicuramente venduto prodotti troppo rischiosi grazie al questionario MifiD. Anche a risparmiatori poco inclini al rischio, che pero’ hanno comprato in modo troppo superficiale, senza conoscere bene i rischi a cui andavano incontro. Fondamentalmente il problema è uno solo: esiste tra le parti un’enorme asimmetria informativa.
Uno dei sistemi ideati nell’ambito della normativa europea per ovviare a questo problema è costituito dalla compilazione obbligatoria del cosiddetto “questionario MifiD” prima di procedere con qualsivoglia investimento: si tratta di una ventina di domande riguardanti tre tematiche fondamentali:
- le esperienze e le conoscenze del cliente in tema di investimenti,
- la sua situazione finanziaria
- i suoi obiettivi d’investimento.
Il legislatore comunitario però indica soltanto le linee guida a cui attenersi: nella realtà spetta al singolo istituto di credito confezionare il questionario nel dettaglio, con un margine di manovra piuttosto ampio. Per esempio l’intermediario può decidere se predisporre un questionario unico, a struttura fissa oppure con contenuti modulabili in funzione delle differenti informazioni da raccogliere, o se optare per questionari differenziati per tipologia del servizio (consulenza in materia di investimenti/gestione di portafogli) o per classificazione/natura della clientela.
Uno studio condotto dalla Consob (“La rilevazione della tolleranza al rischio degli investitori attraverso il questionario”, a cura di N. Linciano e P. Soccorso), basato sull’analisi di un campione rappresentativo di 20 questionari di intermediari italiani e su interviste agli intermediari formulate dalla stessa Commissione, rilevava già nel 2012 come, nel complesso, i questionari risultassero “aderenti alle previsioni e all’impostazione della MiFID”, ma “disallineati rispetto alle indicazioni della letteratura economica e psicologica”.
In particolare, i profili di maggiore criticità riguardavano “la rilevazione delle esperienze di investimento, spesso affidata all’auto-valutazione da parte del cliente e poco orientata a verificare la conoscenza di nozioni di base” quali, ad esempio, proprio “la relazione fra rendimento atteso e rischio e il principio della diversificazione di portafoglio”.
Non solo. Secondo lo studio della Consob, spesso la misurazione dell’atteggiamento verso il rischio “si confonde e si sovrappone con l’individuazione dell’orizzonte temporale e della finalità dell’investimento”.
E per finire le domande sono piuttosto ambigue: “si riferiscono a più temi contemporaneamente”, oppure “contengono termini tecnici che possono comprometterne la comprensione”, osserva la Consob, che avvalora la propria tesi portando l’esempio di diverse autorità di vigilanza di altri Paesi europei che hanno riscontrato problemi simili analizzando i questionari proposti ai clienti dalle banche locali.
Insomma, il problema non è nuovo né circoscritto (anche se è vero che con l’arrivo del bail-in le regole del gioco in parte cambieranno): la vicenda delle quattro banche italiane fallite però ha sollevato la polvere riportando l’argomento alla ribalta, con tanto di reazioni di panico e scambi di accuse (tra governo italiano e Commissione Europea per esempio).
La paura fine a se stessa però rischia di essere un fenomeno solo temporaneo, che andrà di nuovo ad esaurirsi come un temporale passeggero. In realtà questa vicenda offre ancora una volta lo spunto per riflettere sull’importanza di informarsi prima di acquistare qualunque strumento finanziario, a prescindere dalla fiducia riposta nella propria banca e dal questionario MifiD.
Fonte: adviseonly.com
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