Tempo fa è uscito questo articolo su La Voce.info e sul Sole24Ore che parla della ristrutturazione dei debiti delle imprese da parte del sistema bancario. L’articolo è pieno di buon senso e di proposte relativamente semplici e quindi ne ripropongo parecchi stralci con alcuni commenti.
Occorre fare una premessa però: i crediti deteriorati sono in crescita da oltre 5 anni, le operazioni di ristrutturazione del debito che un tempo erano una rarità ora si contano a decine di migliaia e occupano molto tempo delle banche, a cui manca il personale con preparazione specifica per fare fronte all’onda di casi da gestire. Bene la domanda è: se il fenomeno della restaurazione dei crediti deteriorati ha questa portata perché le proposte contenute in questo articolo non sono mai state adottate prima? Quanto dobbiamo aspettare ancora perché le banche trovino accordi tra loro e usino la loro influenza per ottenere ragionevoli modifiche alla legge fallimentare per quanto riguarda gli accordi di ristrutturazione?
Restaurare il credito deteriorato
Proposta concreta per sostenere le banche che finanziano le imprese
I crediti deteriorati (inclusi quelli alle famiglie) erano nel 2012 pari a 287 miliardi, di cui 153 sono sofferenze, 90 incagli e 21 esposizioni ristrutturate. Questa montagna di crediti deteriorati pesa sui bilanci delle banche ed è uno degli ostacoli alla ripresa del credito alle imprese. È necessario mettere in atto gli strumenti che facilitino la gestione dei crediti deteriorati da parte delle banche. Ci soffermeremo su due strumenti sinora trascurati nel dibattito.
1) La ristrutturazione volontaria debiti quando l’azienda è in crisi di liquidità ma è sostanzialmente sana.
La finalità di accordi di ristrutturazione è rendere possibile superare le difficoltà temporanee e onorare il debito a condizioni nuove: questo può evitare alle banche di registrare ulteriori perdite dovute al fallimento e di portare in bonis, dopo un eventuale “periodo di prova” di due anni, il credito deteriorato. Possono essere interessati a ristrutturazioni un buona parte dei 90 miliardi di incagli.
2) Il recupero dei crediti in sofferenza attraverso le vie giudiziali. Tale strumento riguarderebbe parte dei 153 miliardi di sofferenze.
La gestione dei crediti deteriorati attraverso ristrutturazione dei debiti e recupero dei crediti è complicata dal multiaffidamento: il debito bancario delle imprese è frazionato tra più banche. Il coordinamento di queste banche è necessario per raggiungere accordi sulla ristrutturazione del debito o per rendere più efficace il recupero del credito. Tale coordinamento è tanto più difficile quanto maggiore è il numero di banche coinvolte. Oltre al nodo del free riding, le banche possono avere interessi confliggenti: ad esempio, la banca di riferimento può essere più propensa a un accordo, nella speranza di mantenere un cliente consolidato, rispetto a banche la cui relazione con l’impresa è più recente; oppure l’esposizione di alcune banche può essere coperta da garanzie/assicurazioni sul credito o da credit default swap, quella di altre no; oppure possono esservi asimmetrie informative che portano a concessioni condizionate al comportamento di altre banche; oppure creditori minori possono seguire una strategia di “apatia razionale”. In tali situazioni, è utile che i creditori siano guidati e coordinati da una parte terza.
Ristrutturazione dei crediti incagliati
Gli accordi di ristrutturazione includono vendita di asset, rimodulazione dei pagamenti (ad esempio, rinvio di alcuni rimborsi, allungamento della maturità del debito etc), dilazionamento (roll-over) di alcuni crediti, modifiche ai tassi di interesse, cancellazione di penalità dovute, modifica delle clausole vincolanti, debt/equity swaps, nuovi crediti, nuove garanzie sul debito ristrutturato, cancellazione di interessi maturati o di parte del debito.
Tali accordi dovrebbero escludere la copertura di comportamenti fraudolenti e potrebbero includere clausole di cambiamenti nel management (ad esempio, il direttore finanziario). È opportuno che uno o più advisor indipendenti siano coinvolti nella valutazione della sostenibilità del nuovo business plan e del debito ristrutturato (tale intervento è previsto nelle nuove procedure di ristrutturazione).
Come l’autore dell’articolo certamente conosce (lavora come consulente dell’ABI e ha lavorato in Unicredit) la stragrande maggioranza dei tentativi di ristrutturazione (restauro) del debito avviene facendo ricorso alle ‘nuove procedure di ristrutturazione’ previste dalla legge fallimentare, senza le quali le banche non muoverebbero un solo passo visti i rischi anche di natura penale in cui possono incorrere quando mettono le mani su casi che possono terminare in una sezione fallimentare del Tribunale.
Quanto all’esclusione dei ‘comportamenti fraudolenti‘ è ovvio che essendo fraudolenti essi sono esclusi e illegali all’origine, quindi il problema semmai è come prevenirli, come evitare che un imprenditore scorretto si approfitti delle protezioni fornite dalla legge proprio per fregare i suoi creditori. Finora non c’è riuscito nessuno, ma l’esperienza ha insegnato qualcosa alle banche.
Le clausole di cambiamenti nel management sarebbero molto utili ma non occorre che siano una clausola legale: se le banche chiedono un cambiamento nel governo dell’impresa in crisi lo possono fare in molti modi anche semplicemente rifiutandosi di sottoscrivere accordi che non siano basati su un piano di rilancio e su nuovo management. Anche su questo tema ci sono brutti precedenti di giurisprudenza che consigliano alle banche di muoversi con grande cautela. Trattandosi di ristrutturazione di imprese molto spesso familiari il problema non sta quasi mai nel direttore finanziario, ma nello stesso imprenditore a cui è difficile chiedere di mettersi in poltrona a lasciare il timone a qualcuno che non sia lui stesso o della famiglia.
L’intervento degli advisor è una costante nei processi di ristrutturazione, ma quanto alla qualità dei piani presentati da advisor famosi e meno famosi, da professori ed esperti di ogni provenienza le banche oggi hanno davanti un cimitero di piano frantumati dopo pochi mesi. C’è quindi un problema di serietà e qualità su cui ancora una volta il sistema bancario ha molto da dire e fare se intende agire con intelligenza e coordinamento e ottenere risultati duraturi.
La Banca d’Italia potrebbe agire da facilitatore degli accordi, elaborarando, per esempio, principi e linee guida non obbligatorie (il London Approach). Il Mef, con Abi e Confindustria, potrebbe lanciare una campagna di informazione e aprire un tavolo su possibili modifiche fiscali, alla legge fallimentare e al fondo centrale di garanzia per rendere più agevole e conveniente la ristrutturazione dei debiti. L’Abi potrebbe promuovere la costituzione di un fondo che fornisca debito subordinato o nuovo capitale alle imprese che ristrutturano.
Questo è un passaggio cruciale. Perché dopo 5 anni di tavoli di ristrutturazione manca ancora un protocollo tra le stesse banche che regoli tempi (troppo lunghi oggi) e modi (troppo incoerenti) dei processi formali di ristrutturazione del debito? Ho sempre denunciato questa mancanza e non si comprende per quali ragioni l’ABI non si sia mai più fatta parte diligente di rinnovare il codice di comportamento fra banche che era stato emesso quasi 10 anni fa dal precedente DG Zadra. I tavoli di ristrutturazione continuano a saltare o a perdere tempo per i capricci di questa o quella banca, che danneggiano l’impresa da restaurare e le altre banche in ultima analisi. Se ABI non si muove da sola bene farebbe Banca d’Italia a prendere l’iniziativa. E su questa linea pieno appoggio anche alle modifiche sulla legge fallimentare (vedi il commento precedente) e l’estensione -entro certi limiti e in presenza di chiari requisiti- della garanzia dello Stato (che deve comunque distreggiarsi con il problema del divieto di aiuti di stato previsto dalla EU).
Ma il grande, grandissimo problema della restaurazione pilotata dei crediti deteriorati è la lunghezza del processo. Chiudere un accordo di ristrutturazione con 4 o 5 banche in 6 mesi è considerato un miracolo oggi. I tempi quasi sempre superano l’anno e basta pensare che i tribunali fallimentari concedono al massimo 120 giorni per firmare un accordo dalla data di presentazione della domanda di prenotazione del concordato (art.161 6° comma).
In 12 mesi o 18 mesi un’impresa in crisi privata del credito (che si congela automaticamente al momento della evidenza della crisi a causa dei rischi penali e fallimentari in attesa della firma dell’Accordo) può solo peggiorare la propria performance, deteriorando ulteriormente i rapporti commerciali con fornitori e clienti e aumentando il rischio dei propri lavoratori di perdere il posto. Sui tempi di gestione del credito ristrutturato va fatta una seria riflessione collettiva, ma le banche hanno le maggiori responsabilità sulla tempistica eccessivamente dilatata con cui si raggiungono gli accordi. Gli accordi vanno chiusi in 120 giorni, allora saranno veramente efficaci per rilanciare l’impresa in crisi. In 120 giorni si può benissimo scrivere un ottimo piano industriale e finanziario, si può negoziare e trovare accordi sulle garanzie e sul capitale da immettere. Oggi non è quasi mai possibile chiudere accordi in 4 mesi.
Il resto dell’articolo tratta del tema ugualmente rilevante della creazione di una Bad Bank per assorbire e gestire le sofferenze, una soluzione che sin qui è stata avversata da tutti, Banca d’Italia compresa per la paura degli effetti contabili sui bilanci delle banche già fragili. Ma ora in presenza di un volume così elevato di sofferenze si torna a parlarne.
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