Riprendiamo un articolo di grande spessore dal blog Che Futuro di Luca Carbonelli, ripreso da LinkerBlog.
“Io credo che per cambiare tutto occorra aver ben chiaro l’obiettivo, il frutto del cambiamento. Bisogna avere soprattutto una base da cambiare, uno storico da cui attingere e migliorare, un punto di partenza difettoso pronto ad avvantaggiarsi dalle mosse del cambiamento che andremo ad apportargli.In Italia abbiamo l’impresa, lo storico Made in Italy, che sia agroalimentare, moda, metalmeccanico, che sfrutti processi industriali o artigiani, abbiamo le imprese. Si chiamano Benetton, Rana, Ferrero, Piaggio, portano i nomi dei titolari. Bei tempi quando si parlava del titolare dell’azienda, del proprietario, non per altro, ma perché pareva ri-conoscerlo nel suo prodotto. Vedevi il faccione di Giovanni Rana e ti veniva in mente il tortellino, la pasta, il sorriso.
Le grandi aziende italiane sono cognomi. Soffermandoci su ognuna di queste ci si addentra nelle vere dinamiche imprenditoriali, nelle difficoltà del cambio generazionale, quelle del mercato che ti costringe a differenziare l’idea da cui partiva un’impresa, quelle dei problemi legati al territorio in cui è piantata. Insomma, le difficoltà dell’Impresa. Ed oggi invece basta navigare un po’ online e si capisce che quelli che dovrebbero essere i nuovi imprenditori, si pongono solo il problema della ricerca del business angel che investirà su di loro. E dov’è l’impresa? Dove sono le radici italiane nei nomi impronunciabili e talvolta insignificanti di quelle che dovrebbero essere le nuove imprese italiane, quelle innovative, su cui ci stanno facendo credere che dovrà basarsi la nostra nuova economia? In questi giorni è stato di voga su twitter l’hashtag #iorestoqui. Probabilmente perché ancora nessun investitore straniero ha puntato su di voi, o ancor più probabilmente resteremo davvero tutti qui, semplicemente cambiando i nostri piani, impostando un futuro basato davvero sulla forza del passato che ci ha visti protagonisti in Europa.
L’altro giorno leggevo un editoriale di Mario Calabresi su La “Stampa” che confermava la chiusura di 35 (trentacinque) imprese ogni giorno. Una ogni venti minuti. E riflettendo su questi disgraziati anni italiani ho ripensato al suo “Cosa tiene accese le stelle”, un ottimistico storytelling, un viaggio nell’Italia di imprenditori, artisti, medici, italiani insomma, che raccontandosi e lasciandosi leggere, sono lì a fornirci le i principi da cui ri-partire. Beh sì, si può essere ottimisti sul futuro anche attingendo alle esperienze delle vere aziende che hanno fatto la storia del prodotto italiano.
Cambiare quindi non tutto, ma tutta quella parte del sistema Italia che non funziona: la burocrazia, il sistema bancario con l’accesso al credito per le imprese, trasformare il nostro Belpaese accogliente in un Belpaese viaggiante. Ri-organizzare l’economia interna per esportarne gli elementi che arricchiranno tutto il mondo. Ri-definire insomma i principi della storia dell’impresa Italia. Ri-valutare il peso di quel prodotto Made in Italy che anche il più ricco imprenditore cinese ha ammesso di voler importare così com’è, perché inimitabile.
Scrivo questo post con l’intento di invogliare tutti a ridare valore alla cultura di impresa. Pochi giorni fa ho assistito ad un evento, moderato proprio da Riccardo Luna, direttore di Che futuro!, al quale è intervenuto anche il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, che proprio di questo argomentava: della necessità di fare sistema per ricreare una cultura di impresa. Ripercorreva la storia della Treccani con una lucidità impeccabile sull’inevitabile progresso e cambiamento che ha dovuto subire e da cui ha attinto nuova linfa. Allo stesso evento, purtroppo o per fortuna, c’è stato il solito – ma questa volta anche inappropriato, in quanto trattavasi di una di quelle startup che emigrano Oltreoceano e al diavolo la nostra Italia e il patriottismo proclamato – quarto d’ora dedicato alle “idee d’impresa innovative”, che non c’entrano nulla con tutto questo, e nemmeno con la crisi che stiamo vivendo, in quanto, poverine, non l’hanno vissuta e non la vivranno perché tante, quasi tutte, muoiono ancor prima di affrontarla, ignare di cosa sia un bilancio di attività.
La preghiera quindi, da un lato è di ridimensionare tutto questo scouting di startupper, di continuare nell’informazione, di far capire anche a noi una volta per tutte cosa vuol dire “startup innovativa”; dall’altro è di mettere da parte questo fenomeno e cominciare ad eseguire un re-start, un riavvio della buona vecchia impresa italiana. Vedrete che l’“up”, il salto, saranno pronte e brave a farlo anche quelle aziende tradizionali, con nomi e storie italiane, quelle che hanno l’anima e l’impronta del nostro stivale da imprimere nelle terre del mondo.
La preghiera è di trovare un equilibrio ed affrontare insieme, imprese e startup, questo difficile periodo storico, e dar vita – visto che tanto vi piacciono i neologismi – ad un unico grande Re-Start-Up-Pmi.”
Napoli, 16 luglio 2013
L’intervento di Luca Carbonelli è asciutto, breve e limpido.
Due grandi temi:
– una parte dell’Italia non funziona e va cambiata, una parte funziona NONOSTANTE la prima, una parte sta morendo A CAUSA della prima;
– troppa enfasi sulle startup, troppa grancassa. Le startup sono un fenomeno bellissimo, sia che sopravvivano sia che si fermino presto, perché esprimono il grande desiderio di intraprendere e di crescere che dovrebbe pervadere tutte le 3 parti del Paese. Dobbiamo volere bene alle startup, adottarle, facilitarle, ma non possiamo confondere i problemi sul tavolo. Con le startup avremo forse un nuovo tessuto imprenditoriale tra 10 anni, purtroppo non siamo in condizione di aspettare 10 anni.
Il problema italiano urgente è il re-start della vecchia buona impresa, è il processo di ristrutturazione e conversione del capitalismo micro-familiare con debiti in azienda e immobili personali, in un nuovo capitalismo più solido e più competitivo, per evitare che distrugga lavoro come ha fatto in questi anni di crisi.
Articolo ripreso da Linkerblog.biz a cura di F. Bolognini