«Di continuo egli affermava che il rischio nell’adottare la scelta apparentemente più audace era molto inferiore al rischio dell’inazione. E considerava che persone oltremodo caute, poste in posizioni di responsabilità, costituissero pericolose passività per la nazione».
Cosi Harrod nella sua Vita di J. M. Keynes. Tutto induce a pensare che la recessione di cui sembrano avvertirsi sintomi sempre più preoccupanti, indurrà a una riconsiderazione del fondamentale messaggio keynesiano, che conserva la sua validità indipendentemente dalle «politiche» le quali vanno, naturalmente, adattate ai tempi e non possono essere codificate una volta per tutte.
L’inazione ha come determinanti essenziali gli interessi costituiti, ma anche la pigrizia mentale. Ora che anche la pubblicistica in grado di avere una qualche influenza sulla pubblica opinione ha avuto l’illuminazione di rendersi conto che occorrerebbe operare per ridurre la dipendenza del nostro paese dall’estero e per sostenere la domanda interna, viene fatto di riflettere al tempo perduto rispetto ai tentativi compiuti, sul piano intellettuale, proprio per orientare le decisioni di politica economica in queste direzioni.
Gli interessi costituiti che favoriscono l’inazione sono sin troppo evidenti: si tratta della pretesa del padronato di ristabilire nelle fabbriche un «ordine» basato sulla intimidazione e su una incontrollata libertà di decisione compatibile soltanto con una considerazione dei lavoratori come soggetti passivi della produzione.
Lo schermo delle rigidità, salariali e d’altro genere, è caratteristico dei tempi in cui manca la capacità di comprendere gli eventi, in quanto si continua a interpretarli sulla base di schemi mentali superati. Gli anni trenta furono tipici, al riguardo, per l’insistito convincimento che fosse sufficiente ridurre i salari per superare la recessione. E invece il meccanismo non era più in grado di operare, in quanto erano cambiati i presupposti per la sua validità concettuale e pratica.
È singolare che proprio dal presidente di una banca centrale sia stata ricordata, di recente, un’affermazione di Keynes espressa nell’immediato primo dopoguerra, allorché egli ebbe a considerare con allarme la circostanza che «le persone poste in posizioni di responsabilità affrontavano i problemi del modificato mondo del dopoguerra con opinioni e idee ancorate alla situazione prebellica” (Discorso di Karl Pöhl, presidente della Deutsche Bundesbank, all’Istituto di studi bancari e finanziari di Parigi). È questo sfasamento tra fatti nuovi e idee vecchie che è la ragione di fondo delle crisi, anche nei loro risvolti conflittuali.
È difficile dire in quale misura il richiamo a Keynes abbia ispirato le ulteriori considerazioni di Karl Pöhl: «i problemi che ci troviamo a dover fronteggiare hanno origini proprie e nessun automatismo ci consentirà di liberarcene con un processo di salvamento privo di pene. Il ritorno a regole meccaniche, ad automatismi, rappresenta una comprensibile reazione a una persistente manipolazione della moneta come strumento della politica pubblica.
Ma la moneta non è in grado di regolarsi da sola e dobbiamo accettare la responsabilità che da ciò discende». Con questo egli intendeva manifestare il suo scetticismo sia nei confronti del monetarismo che della possibilità del ritorno al sistema aureo. Ma su questa strada si può procedere oltre: rendendosi conto che molti altri processi del sistema economico-finanziario moderno non sono in grado di regolarsi da soli e richiedono un intervento attivo e discrezionale.
Il che significa poi ritrovare il senso dell’esigenza di una regolamentazione della domanda globale, in termini che consentano di tener conto sia delle potenzialità costituite dalle risorse, umane e materiali, disoccupate, sia dei vincoli derivanti dal persistere, in varia misura, di tensioni inflazionistiche. L’anomalia di questa situazione «perversa» ha accresciuto le responsabilità di chi ha il compito di realizzare le politiche adatte ai tempi e alle circostanze. Ma non si può pensare di eludere queste responsabilità con il ripristino o con l’abolizione di automatismi che hanno una mera funzione o di fata morgana, o di capro espiatorio.
Articolo di Federico Caffè pubblicato sul manifesto il 4 dicembre 1981. Da: Federico Caffè, “Scritti quotidiani”, manifestolibri, 2007