Sukuk prestiti senza interessi nella finanza islamica

L’opinione pubblica occidentale, ormai avvezza a parlare di spread, dovrà presto familiarizzare con i sukuk. Non un nuovo parametro da tenere d’occhio, ma la versione islamica delle obbligazioni, certificazioni di investimento conformi alla shariʿa. La legge coranica proibisce il prestito ad interesse, ragione per cui, a differenza dei bond tradizionali, i sukuk devono corrispondere a un progetto ben determinato, generalmente di natura infrastrutturale o immobiliare, e rappresentano una quota dei profitti.

La finanza islamica è ancora un fenomeno minoritario, i suoi asset non raggiungono i mille miliardi di dollari. I sukuk emessi ogni anno, circa 50 miliardi di dollari, rappresentano l’1 per cento del totale globale. Ma le aspettative sono rosee. La londinese Ernst & Young prevede una crescita del 33 per cento nel 2012, spinta dai rivolgimenti epocali del mondo arabo e dalla parallela crisi dell’Occidente e del suo sistema bancario, minato dall’eccesso di debiti. Anche Deutsche Bank giunge a conclusioni simili – 1.800 miliardi di dollari entro il 2016 – perché la stagnazione del sistema tradizionale di prestiti porterà le compagnie a cercare strade alternative.

Come è naturale, il boom delle banche islamiche riguarderà in primo luogo l’area mediorientale e quella nordafricana, dove gli asset, secondo la Ernst & Young, passeranno dai 416 miliardi di dollari del 2010 ai 990 del 2015, grazie all’orientamento favorevole dei nuovi regimi. L’Egitto ha già considerato la possibilità di emettere sukuk. Alcuni leader libici e tunisini, islamisti e non, hanno chiarito che il sistema bancario ispirato alla shariʿa sarà parte integrante del loro progetto politico.

Anche il mondo occidentale, però, potrebbe guardare con interesse a questi nuovi strumenti. Ashar Nazim, leader dei servizi finanziari islamici alla multinazionale londinese, ne è convinto: «Il movimento di protesta Occupy Wall Street ha mostrato una crescente rabbia nei confronti della distribuzione della ricchezza all’interno dei sistemi capitalisti. La finanza musulmana, al contrario, proibendo gli interessi, la pura speculazione e gli eccessi di leva finanziaria, diventa appetibile in questa fase». Dietro al boom dei sukuk, dunque, non ci sarebbero motivi di natura religiosa, ma aspirazioni alla sicurezza e alla stabilità economica.

Una settimana fa il governatore della Banca Centrale del Bahrein, Rachid Mohamed al Maraj, è andato oltre: «Il sistema bancario islamico può attrarre clienti al di fuori delle aree tradizionali, la regione del Golfo Persico e le zone musulmane del continente asiatico. Anzi, potrebbe permettere all’industria mondiale di conoscere una crescita prolungata nel prossimo decennio».

Mentre l’Occidente vede lo spauracchio del credit crunch, il mercato dei sukuk si espande. L’ascesa delle compagnie aeree del Golfo, come la Emirates, va a braccetto con quella della finanza musulmana. Alcuni big bancari dell’Occidente si sono mossi di conseguenza. A maggio l’Hsbc Amanah, il braccio islamico del colosso britannico, ha emesso sukuk per 500 milioni di dollari. Goldman Sachs ha annunciato un programma analogo il mese scorso che però sta incontrando notevoli problemi. Anche il francese Crédit Agricole sta considerando l’utilizzo di questi strumenti. La parte del leone, comunque, la farà il Nord Africa. La primavera araba ha visto un ruolo attivo dei grandi fondi del Golfo, Qatar, Arabia Saudita, Kuwait. E il fenomeno della finanza ispirata alla shariʿa potrebbe estendersi a tutto il continente nero. A giugno la Nigeria ha dichiarato di pianificare l’emissione di un sukuk sovrano nei prossimi 18 mesi, il Senegal si avvia a seguire la stessa strada.

Se il boom è indubbio, resta di difficile interpretazione. Molti sostengono che si tratti di una situazione congiunturale, dovuta alla crisi del sistema bancario occidentale, per cui bisogna attendersi un’immediata inversione di tendenza non appena i mercati globali dovessero ritrovare stabilità. Gli stessi vantaggi dei sukuk in termini di sicurezza economica non sono da considerarsi assoluti. Anche Dubai nel 2009 ha vissuto una crisi creditizia e alcune compagnie sono state costrette a ristrutturare il loro debito per rimborsare i creditori. I depositi negli istituti islamici non sono immuni dalla speculazione, come hanno mostrato le vicende dalla Dubai Bank, entrata in crisi e finita nelle mani della Emirates Nbd.

Il rapporto con la leva finanziaria è ancora tutto da decifrare, come sottolinea Kadir Hussaim, amministratore delegato della Mashreq Capital: «Ci sono compagnie che innalzano il debito attraverso i sukuk. Anche se tecnicamente vengono rispettati i precetti della shariʿa, questo non significa che il rischio non esista». Inoltre, il mondo islamico presenta ancora gravi carenze, a livello legislativo ed istituzionale, spesso vi sono linee-guida piuttosto che regole certe.

È probabile, dunque, che l’euforia attuale sia dovuta in gran parte ai demeriti altrui e che la finanza tradizionale torni a crescere sui ritmi abituali, quando avrà ridotto la propria volatilità. Anche se gli equilibri geopolitici mondiali sono in continua evoluzione e al Golfo Persico, con i suoi fondi sovrani ricchi di liquidità e i suoi sukuk, dovranno guardare borse e cancellerie dell’intero pianeta.

 

Testo articolo ripreso da linkiesta.it