Uno dei miraggi più ricorrenti in questi giorni così difficili consiste nel vedere all’orizzonte una vendita di beni pubblici per ridurre in modo consistente il debito pubblico. L’idea sembra in effetti attraente: un programma di vendite massicce dovrebbe servire ad abbattere il debito, migliorando quindi la percezione dei mercati sulla sua sostenibilità.
NON È FACILE VENDERE
In apparenza, il patrimonio pubblico è cospicuo, vale quasi quanto il debito pubblico. Ma molte cifre di cui si discute sono a vanvera. Il patrimonio liquido dello Stato (le partecipazioni in Eni, Enel, Finmeccanica, Anas, eccetera) è di “soli” 55 miliardi ed è quello che oggi ha un rendimento più alto: attorno al 5,5 per cento contro lo 0,5 per cento del resto del patrimonio gestito da Stato, regioni ed enti locali.
Viene da chiedersi se vale la pena di venderlo nelle presenti condizioni di mercato, rinunciando a questi rendimenti: ad esempio Finmeccanica ha perso più di metà del proprio valore di borsa nell’ultimo anno. La proprietà pubblica è poi dispersa in mille rivoli, dalle autorità portuali alle comunità montane, dalle camere di commercio alle agenzie regionali di sviluppo, e non è immediatamente disponibile.
Se guardiamo in particolare agli immobili, la valutazione del patrimonio non residenziale è di 368 miliardi, una cifra certamente cospicua. Ma attenti a facili entusiasmi, la parte libera – non utilizzata per le loro esigenze dalle amministrazioni – vale 42 miliardi, solo l’11 per cento del totale.
Impossibile, dunque fare il botto, abbattere in modo significativo il debito pubblico. Non convince l’ipotesi, più volte avanzata, di ridurre in tempi brevi il debito con la creazione di una holding cui trasferire cespiti di proprietà pubblica per centinaia di miliardi. Dall’esperienza recente si ricavavano due lezioni. Da un lato, vendere effettivamente gli immobili pubblici è un’operazione complessa e richiede tempo (bene ricordarsi dell’insuccesso di Scip 2 che valeva meno di 7 miliardi). Dall’altro, trasferire solo formalmente la proprietà allettando gli acquirenti con un rendimento garantito è molto costoso, ben più del normale servizio del debito (l’operazione “vendi e riaffitta” realizzata nel 2005 con il Fondo immobili pubblici: trasferiva a privati la proprietà di immobili strumentali delle amministrazioni, garantendo agli acquirenti un rendimento, rappresentato dai canoni di affitto pagati dalle stesse amministrazioni, del 7,5 per cento l’anno).
UN PROBLEMA DI GESTIONE
Il vero problema del nostro patrimonio pubblico è che rende troppo poco, perché viene dato in concessione a privati a prezzi stracciati oppure viene utilizzato per amministrazioni pubbliche che potrebbero avere sede altrove liberando risorse da mettere a frutto, basta pensare al caso delle caserme nei centri cittadini o ai terreni di proprietà della Difesa. Inoltre ci sono sprechi evidenti nell’utilizzo degli edifici di proprietà di Stato ed enti locali da parte delle amministrazioni pubbliche.
Ad esempio, viene destinato uno spazio fisico ai dipendenti nettamente superiore che nel privato: quasi 50 mq a dipendente pubblico contro uno standard nazionale degli uffici privati di 20 mq. (1) I costi della nostra politica sono, oltre che nei compensi eccessivi che si concede, anche e soprattutto in una gestione clientelistica del patrimonio di noi tutti. Con una gestione oculata di questo patrimonio, si può legittimamente pensare di farlo fruttare attorno al 5-6 per cento all’anno. Sommando il patrimonio fruttifero di Stato, Regioni ed enti locali, si raggiungono circa 600 miliardi, che potrebbero portare al bilancio pubblico circa 30 miliardi all’anno a fronte dei 5 raccolti oggi.
Per arrivare a questo risultato occorrerebbe dare in gestione questi beni a una società pubblica, l’Agenzia del Demanio è il candidato naturale, possibilmente con una supervisione europea. L’obiettivo non dovrebbe essere la vendita, ma la valorizzazione del nostro patrimonio, e la destinazione automatica, obbligatoria di tutti i proventi del patrimonio alla riduzione del debito pubblico.
Un modello di riferimento è quello della Treuhandanstalt che si è trovata a gestire il patrimonio pubblico dello Stato tedesco-orientale, un patrimonio altrettanto, se non più, eterogeneo di quello pubblico italiano. L’agenzia dovrebbe fissare rendimenti standard che vanno raggiunti anche a livello locale, nella gestione del cosiddetto “federalismo demaniale”. Laddove questi rendimenti non fossero raggiunti, il patrimonio potrebbe essere almeno temporaneamente sottratto alla gestione degli enti locali in questione.
ANCORA INGEGNERIA FINANZIARIA
L’emendamento governativo al disegno di legge di stabilità per il 2012, da quanto si capisce, non sembra andare nella direzione qui auspicata e si affida una volta di più all’ingegneria finanziaria. Si prevede il trasferimento da parte dello Stato di beni immobili non residenziali a uno o più fondi comuni di investimento immobiliare. Le quote dei fondi verrebbero poi collocate sul mercato mediante offerta pubblica di vendita. Correttamente, si stabilisce che i proventi netti di tale collocamento saranno destinati alla riduzione del debito pubblico (non potranno cioè essere usati per finanziare nuove spese o riduzioni di imposte).
Tutto chiaro se si tratta di immobili liberi. Ma abbiamo visto che questi rappresentano solo una piccola parte, l’11 per cento, del patrimonio trasferibile. Cosa accade per gli immobili utilizzati dalle amministrazioni e conferiti al fondo immobiliare? In quel caso, i proventi della cessione delle quote vengono trasferiti all’Agenzia del Demanio per l’acquisto di titoli di Stato da parte della medesima Agenzia.
Quest’ultima dovrà poi destinare gli interessi dei suddetti titoli di Stato al pagamento dei canoni di locazione e degli oneri di gestione degli immobili stessi. Sembrerebbe un’operazione di sale-and-lease-back (vendi e riaffitta) analoga a quella del Fondo immobili pubblici del 2005, con la novità di un passaggio intermedio con l’acquisto di titoli di Stato. In realtà le cose non stanno esattamente così. A differenza di allora, non viene previsto un rendimento garantito in termini di canone di locazione. Un sottoscrittore che acquistasse quote del fondo immobiliare si vedrebbe riconosciuto un rendimento (canone di locazione) pari al tasso di interesse sui titoli di Stato meno gli oneri di gestione degli immobili.
Alla fine, l’investitore che acquistasse quote del fondo immobiliare starebbe, in realtà, acquistando un titolo del debito pubblico garantito dal patrimonio immobiliare. Presumibilmente, in questo modo, si accontenterà di un interesse inferiore a quello pagato da un titolo non assistito da analoga garanzia. Questo dovrebbe essere il vantaggio per le finanze pubbliche: usare il patrimonio per garantire una quota del debito, servirebbe a far diminuire l’onere degli interessi.
Non è chiaro se un’operazione del genere potrà avere successo, nel senso di portare a una diminuzione del costo medio del servizio del debito. Il patrimonio immobiliare pubblico oggi fa da garanzia implicita per il complesso del debito pubblico. Legare esplicitamente tale garanzia a una parte del debito farà diminuire l’interesse pagato su quella parte e presumibilmente aumentare l’interesse pagato sui titoli restanti non più assistiti da quella garanzia.
C’è quindi da essere scettici sull’efficacia dell’operazione. Sarebbe invece preferibile, senza cercare scorciatoie, mettere mano a un serio piano di revisione della gestione degli immobili strumentali delle amministrazioni che, senza pretendere di ottenere risultati immediati, consenta in un periodo ragionevole di due-tre anni risparmi reali.
Articolo ripreso da lavoce.info